domenica 30 dicembre 2012

Vaneggiamenti aerei

Da vera poetessa di alto spessore culturale, mentre Lui si scoppiava un film da Oscar in stile fantascientifico sull'aereo, ho scritto questo post nelle note, promettendomi di pubblicarlo non appena arrivata. Tutto vostro.

Dopo quattro mesi e dieci giorni, di nuovo su un volo Delta.

Sembra ieri.
Seduta vicino ad un'americana che ha mangiato tutto il suo cibo più quello del marito, tanto che volevo offrirle pure il mio budino. 
Da sola, spaventata e elettrizzata allo stesso tempo.
Sembra ieri e invece é oggi e sto già tornando indietro. 
Io e praticamente un infante. 
8 chili tondi tondi.
Diciamo che quest'America mi rimarrá addosso per un bel pó.
Una settimana fa ho detto addio ad Albany.
Come al solito, sembrava che mi avessero anestetizzata.
Qualche giorno prima, salutando Marina, avevo i lacrimoni come i bimbi quando diventano tutti rossi e bramano il ciuccio.
Quando é toccato a me tutto é volato col tasto forward. 
La mattina della mia partenza me la ricordo come passata in un soffio.
Un attimo prima ero nelle mie lenzuola zebrate a ronfare allegramente e un momento dopo ero sul taxi. In mezzo ci sono state due ore di lotta contro il tempo e lo spazio.
Diciamo che quattro mesi di vita se sei me hanno bisogno di tanta roba.
Se poi hai dei problemi a controllarti quando vai al mall, ancora di più.
Ho dovuto abbandonare a Marina, nell'ordine: la mia borsa dell'acqua calda, la brocca per scaldare l'acqua, le lenzuola, le coperte, il cuscino, duemila attaccapanni e le mie preziose salviette per il sedere dei bimbi.
E nonostante l'abbandono le mie due valige avevano lo stesso il peso specifico del piombo. 
Un grazie a Stephen che se le é trascinate giù dalle scale.
Rischiando l'ernia ad ogni passo.

Insomma.
Ho chiuso la porta della mia stanza velocemente, un ultimo sguardo per controllare se avessi lasciato qualcosa di basilare, tipo, che ne so, il passaporto.
Niente sguardi languidi che durano ore, niente carezze al legno della scrivania (?), niente mano appoggiata sul vetro dalla finestra guardando fuori.
Dite che ho visto troppi film?
Il resto lo sapete già.
In un attimo ero nel taxi.
E l'attimo dopo nella stazione dei pullman.
E poi sul bus.
Che ha deciso di fare una deviazione passando dal Bronx.
In ogni caso, passare il Natale a New York mi ha un pó distratta.
Tipo ora mi sento come se fossi arrivata qui il 20 dall'Italia.
Poi ripenso alla fatica che ho fatto per trascinare le valige in metro fino all'aeroporto e mi ricordo quanta roba avevo.
Possibile che questo semestre stia già svanendo?
Che stia giá sfumando nei ricordi?
Che stia lasciando un gusto dolce in bocca, come quei momenti preziosi dell'infanzia, anche se non ti ricordi esattamente cosa é successo?
Le altre, che sono già a casa da qualche giorno, dicono che una volta messo piede oltre la soglia di casa sembra di non essere mai partite.
Buffa la nostra memoria.
Più tenta di afferrare un ricordo, di renderlo nitido, di disegnarne i contorni, più il ricordo sfugge.
Si deforma, si frantuma e a noi rimangono dei pezzi.
Per esempio, adesso tutto mi sembra compresso.
Non ricordo esattamente la lunghezza dei mesi. 
Novembre é volato come esattamente le prime due settimane di dicembre.
Dove sono finiti i giorni?
Come hanno fatto a contrarsi e sgusciare via così?

Ma i miei sensi funzionano meglio di qualsiasi tipo di sforzo mentale per ricordare.
E' facile con la vista: ricordo perfettamente ogni momento attaccato ad una fotografia, mentre i giorni in cui non ne ho fatte sono più sottili, più impalpabili.
Allo stesso modo le canzoni sono attaccate a dei momenti.
Non potrò più ascoltare "Work Out" senza ricordarmi che era la sveglia di Marina.
Né "Mr. Wonderful" senza pensare a me Sara camminando a ritmo di musica per Western Avenue.
Né "Die Young" senza ricordare la sera del compleanno di Alice a bere qualche birra nella sua stanza. 
Né Gangnam style senza ricordare quella sera in quel bar anonimo nel Wisconsin, a ballare con nuovi amici con una spensieratezza che chissá se ritroverò mai. 
Né Alright di Pitbull senza pensare allo sculettamento mio e di Marina a zumba. 
Anzi, la sto ascoltando in questo momento e sto iniziando a dondolare a destra e a sinistra.
Credo che il mio vicino intellettuale alla mia sinistra sia già spaventato.
E abbiamo ancora sei ore di volo.
Non riesco ancora a capacitarmi del fatto che tra sei ore planerò nella terra dove tutti parlano italiano.
Sembro demente, me ne rendo conto.
Ma essere circondata da gente che parla un'altra lingua all'inizio fa strano, poi ti abitui. A crearti il tuo guscio, dove loro non possono capirti ma tu puoi capire loro, puoi interagire ma allo stesso tempo distanziarti.
E a casa questo tipo di privacy sconosciuta non si può avere.
Comunque.
Dicevo.
L'olfatto rimarrà sempre il senso che mi emoziona di più. 
L'altro giorno camminavo per New York e per un attimo mi é arrivata un'ondata di odore di lavatrice.
Lo stesso odore indescrivibile di quando scendevo nel seminterrato con il mio sacchetto di roba da lavare e il profumo caldo di pulito mi inondava le narici. 
L'odore di camera di Marina allo stesso tempo.
Un misto del suo profumo, delle sue maledette candele profumate (confiscate dopo tipo due settimane) e del suo detersivo.
L'odore che c'era nelle classi.
L'odore del profumo di Lorraine ogni volta che ci abbracciavamo per dirci "I will miss you so much"
L'odore delle salviette profumate che usavo per spolverare.
L'odore di fritto che mi rimaneva addosso ogni santa volta che scendevo a mangiare. 
Ecco quest'ultimo spero di non sentirlo per un pó.
L'America mi ha lasciato non so quanti ricordi, mi ha vista crescere velocemente in quattro mesi (e NO, non solo in larghezza, maledetti malpensanti) e grazie a lei d'ora in poi guarderò il mondo con occhi un pó diversi.
Un pó piú globalizzati.
Un pó piú grassi.
Un pó piú "yo!"
Un pó piú grandi.

Ed é il regalo più bello che questo paese potesse lasciarmi. 

giovedì 27 dicembre 2012

Are you coming home?


Cause di forza maggiore (leggi: impacchettamento, addii e mancanza di wifi) nessun post all'ultimo momento prima di lasciare quel buco che mi ha accolta per ben 4 mesi.
Forse é stato meglio così.
Primo post dal mio nuovo bambino. 
E adesso faccio i conti con l'ultima notte a NYC. Ultima notte negli States. 
L'ultima volta che ho dormito nel mio letto é stata la notte del 17 agosto. 
Per quattro mesi mi sono addormentata in letti sconosciuti, uno dei quali era quasi diventato casa. 
Il mio odore ci era rimasto impresso sopra. Non nelle lenzuola. Proprio nel letto. 
Nel materasso, nelle doghe, nel legno. 
La stanza 306 avrà per sempre un pó del mio odore, non importa chi ci dormirà. Chissá chi, poi. 
In ogni caso, sono nella mia minuscola stanza nel cuore di Manhattan, oggi ha nevicato potentemente e mi sono bagnata fino all'osso. Tento invano di far entrare tutto nelle valige. 
Sono così agitata che non so descriverlo.
Il semestre che ho appena passato é così vivido nella mia mente e allo stesso tempo così sfocato, come fosse stato tutto un sogno. 
Solo una settimana fa salutavo tutti.
Mi aspettavo singhiozzi, lacrime, nasi rossi e mascara colato.
E invece, composta e sorridente, ho abbracciato tutti, uno per uno, con la promessa di rivederci presto.
Sono salita sul mio taxi, unito pollici e indici a forma di cuore dal finestrino, e guardato per l'ultima volta tutti loro fuori dall'Alumni, con un sorriso.
Ok, ho iniziato a piagnucolare appena girato l'angolo.
Ma per pochino.
Non ho ancora realizzato il tutto, credo.
Forse penso solo di prendere il pullman che mi riporta lí, domani.
invece che un volo Delta che mi recapita a Malpensa.

Quante parole che avrei da dire, quanto sonno che ho in questo momento e quanto groppo in gola che mi si sta creando. 
Ho troppi pensieri ingarbugliati. Mi toccherà sbrogliarli.
Prima o poi.
Non adesso.
Fare i conti con troppe cose contemporaneamente non é da me.

Le metto tutte in stand by per qualche giorno.
Finché non saró rincoglionita dal jet-lag e odore di casa.
Allora sí, che sará il momento di fare i conti con i miei nodi alla gola.



Are you coming home?

martedì 11 dicembre 2012

#leaveamessage




Mi faccio promotrice di una cosa carinissima, a cui ho partecipato anche l'anno scorso.
Se siete anche solo curiosi, cliccate proprio qui che non fate fatica e questa iniziativa è senza sforzo ma di grande effetto.
Come dice l'hashtag, #leaveamessage è un modo per sorridere anche quando le cose vanno in mer non proprio come vorremmo.
Si tratta semplicemente lasciare dei bigliettini in giro per la vostra città, in posti facilmente raggiungibili, con frasi positive, buffe, che facciano ridere, che facciano scompisciare il prossimo.
Insomma, qualcosa di carino che vorremmo che fosse detto a noi.
Per dire, non "sono solo le otto di mattina, hai le occhiaie ma la tua giornata può ancora peggiorare, potresti tipo pestare una cacca con le tue Loboutin nuove".
Ma qualcosa del tipo "Dopo l'ufficio premiati col calendario della Santarelli, te lo meriti". "Regalati un massaggio questo weekend, il tempo dedicato a te è sempre il migliore"
Insomma, capito il concetto, no?
Ficcateli in un libro della biblioteca, tra i giornali al bar, in una cassetta delle lettere, sui banchi di scuola.
L'unico senso che ha questa iniziativa è sorprendere positivamente.
Quest'anno l'iniziativa sostiene anche l'Ospedale Meyer, per sapere tutto vi rimando al link di cui sopra.

Io lo faccio da qui.
Voi fatelo a casa, anime aride che non siete altro.
Trovate dieci minuti per scrivere due frasi carine, e spargete un pò di buonumore nel mare di cinismo in cui ci troviamo in questo periodo.
Combattiamo la nostra pigrizia e la nostra mancanza di iniziativa con questa trovata carinissima.
E' gratis e comporta sforzo pari a zero.

Se avete twitter, twittate l'hashtag #leaveamessage e il luogo dove avete lasciato il bigliettino, e la città, così che possa essere trovato più facilmente.

Spargete la voce, condividete questa pagina o il link a cui vi ho rimandati, e piegati quegli angoletti della bocca all'insù.


lunedì 10 dicembre 2012

L'America che (mi) cambia

Questi ultimi giorni scorrono veloci ma allo stesso tempo lenti, trascinati, come quando al mattino ti vuoi godere quegli ultimi minuti di tepore nel letto stropicciandoti sotto le coperte.
Ecco, questa è esattamente la sensazione che io, e credo tutti, stiamo provando.
Scrivo dal tavolo della stanza comune, procrastino la mia doccia (finirò a farla ad un'ora indecente tipo le due), puzzo di patatine fritte e cibo cinese.
Perchè stasera ho fatto cena due volte.
Una alle sei tornata dal mall (ve l'ho detto che qui sono strani, io alle sei a casa non ho ancora nemmeno preso l'aperitivo), e una adesso. Ma siccome adesso la dining hall è chiusa, abbiamo ordinato cinese.
Può una persona avere meno ritegno di me nel cibo?
Non credo.
Stiamo facendo finta di studiare.
O almeno, io.
Mi sfugge come mai qui un esame può essere un paper.
Va bene, forse è il caso che mi spieghi un pelino meglio.
Ogni corso è semestrale, il tuo voto è la somma di puttanate come quiz, partecipazione, presenza (le lezioni sono obbligatorie), test, presentazioni, assignments, test.
Ha un vago senso.
Anche se l'esame finale a dicembre vale tipo il 15% del voto.
Ma il bello è che per alcuni corsi gli esami non esistono.
Il mio corso di letteratura ha due cosiddetti esami. Uno a metà semestre e uno alla fine.
Entrambi sono sottoforma di take home exam.
Ovvero, un saggio di una decina di facciate, sui libri che (non) ho letto in classe.
Cioè, ricapitolando.
La presenza è obbligatoria. Punti pieni.
Niente presentazioni per questo corso.
Due midterm da scrivere a casa.
Il tempo a disposizione è una settimana.
Non cinque ore.
Una settimana.
Niente esame.
Questo vuol dire niente ripassi notturni, niente ripetere per ore a madre, padre, amici, fidanzati, cani, gatti.
Vuol dire niente cagotto nelle sedici ore che devi aspettare prima di dare il tuo orale.
Niente sensazione di svenimento/vomito imminente/bisogno di un pannolino nel momento in cui il professore chiama il tuo nome.
E' il paradiso universitario.
Per un altro corso ho avuto l'esame, devo ammetterlo.
Ma ho avuto le domande una settimana prima.
No, non le ho rubate.
Il professore non voleva tenderci una trappola o cosa, ma solo verificare che avessimo capito i punti critici del corso.
Così ci ha dato le domande, tre, molto ampie, e abbiamo dovuto sceglierne due.
La settimana dopo abbiamo dovuto rispondere in due ore alle domande scelte.
C'è gente che ha preso D.
Che è tipo un 18 scarso.
Io non sono un genio e passo la maggior parte del mio tempo a cazzeggiare, come avrete capito.
Ma quando c'è da studiare il mio impegno ce lo metto.
Magari faticosamente, eh.
Però la mia porca figura riesco a farla quasi sempre.
Quindi sono qui, che non ho ancora le domande per i miei take home exams, a passare il tempo.
Mangiando, ovviamente.
E comprando.
Ogni tanto dò uno sguardo all'armadio, il letto, i cassetti, e alle mie due valige.
Alterno lo sguardo parecchie volte.
Ma non esiste nessuna legge della fisica che mi rassicuri.
Tutta la mia roba non entrerà mai in quelle due valige.
E il momento di impacchettare tutto è sempre più vicino.

Mioddio, non fatemi pensare al momento in cui chiuderò la porta della stanza vuota per l'ultima volta.

Ps. E' arrivato anche il momento fescion blogger.
Chiamatemi pure la Ferragni dei poveri.
Non ho resistito e ho comprato due rossetti della Mac oggi.
Che in Italia costano na fucilata (lo so perchè ho controllato su internet, ho messo il rossetto tre volte nella mia vita credo.) ma qui sono decisamente più cheap.
Un rosso chiamato Ruby (tutto un programma) e un rosa shocking firmato Nicki Minaj (sta andando a ruba! Affrettati! Mi disse con testuali parole la commessa).
Questi quattro mesi hanno contribuito alla mia crescita, e a capire come anche le piccole cose cambiano in un soffio.
Qui ho sperimentato anche il mio debutto nel mondo del makeup che conta.
Quelli che si chiamano i traguardi di una vita, insomma.
Avevo un rossetto, una volta. Pagato tipo due dollari non so dove.
Di quelli che se li prendi in regalo nei giornaletti da adolescente rischi di prenderti pure una malattia.
Non sono mai andata oltre il mascara di Maybelline e il phard di Deborah.
Ora metterei il rossetto di Mac pure per andare al cesso.
(Come vedete la finezza che mi contraddistingue non è mai cambiata. Rassicuratevi)
Quindi ho trovato un nuovo modo per spendere i (non) miei soldi.
Padre, mi leggi?

venerdì 7 dicembre 2012

Sgoccioli.




13 giorni rimasti ad Albany.
20 negli Stati Uniti.
Scrivo come al solito dalla mia vecchiotta scrivania, Waterbury Hall, stanza 306.
Dio come non dimenticherò questo loculo dalla finestra che non riesco mai ad aprire, (e quando ci riesco mi strappo due o tre muscoli della spalla), dal materasso foderato da qualcosa di lucido e scivoloso così le mie lenzuola di microfibra alla sera sono perfette e al mattino sembra che otto gatti abbiano giocato nel mio letto, (Badate che ho detto gatti e giocare. La mia fantasia sarebbe potuta andare molto più lontano), dai cassetti perennemente incastrati che una volta a forza di tirare mi è venuto via tutto.
Mi mancherà chiamare questo posto casa, tornarci dopo un weekend via e accasciarmi sul letto come quando si torna davvero, a casa.
Come vedete la settimana scorsa ha nevicato.
Prima e (chissà) ultima nevicata che abbiamo visto ad Albany.
Era esattamente la notte tra il 30 novembre e il primo dicembre, per essere precisi era l'una di notte e noi fuggivamo dall'house party di fronte al dormitorio perchè era arrivata la polizia.
Ehm.
Poco poetico lo so.
Ma divertente come non mai, posso assicurarvelo.
Abbiamo giocato nella neve in collant e cappottino autunnale all'una di notte.
Roba che se lo sa mia madr...Ops.



Mi mancherà persino passare la mia Suny Card all'entrata a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Tornare a casa dopo due fette di pizza da Di Carlito's, o una barcata di noodles dal cinese all'angolo.
Nel weekend abbiamo progettato e fatto realizzare delle magliette tutte uguali con il motto di questi quattro mesi.
Qualcosa di dolce e zuccheroso? Tipo vi vorrò bene per sempre?
Non esattamente.
Eccovele qui.


Insomma, ognuno ha i suoi modi per dirsi ti voglio bene, no?
Voi poi non lo sapete, ma dopo aver scritto queste due righe e postato la foto sono rimasta tipo trenta secondi a scrutarmi. Nella foto, dico.
Non esiste una parte di me che non sia ricoperta da un sottile strato di grasso.
Tranne la faccia, quella è direttamente farcita da due ghiande nelle guance come se fossi Cip.
O forse Ciop. Quello un pò più rinco.
Ringrazio di aver preso la decisione di andare in America nel primo semestre, così quando torno non sarò costretta a sfoggiare bikini inglobati nelle mie nuove e sfavillanti maniglie dell'amore, ma trascinerò la mia ciccetta in esubero ben nascosta dal parka.
La domanda del secolo è: tornerò mai normale?
Non ho idea della quantità precisa di chili (ma tranquilli: il simpatico ometto che io chiamo Padre vuole portare una bilancia in aereoporto il giorno del mio ritorno, giusto per essere sicuri), ma ho constatato che si possono avere rotolini anche dove non pensavo potessero esistere.
Tipo dietro al collo quando piego la testa.
O sulle spalle.
O sulla schiena quando mi giro a destra e a sinistra.
A voja di fare zumba, avrei dovuto darmi al boot camp, maledizione.

Comunque, in attesa di sapere se mi ci vorrà una rapida lipo o semplicemente qualche mese di cibo normale,
posso dire di essere ingrassata e felice.

Ps. mi dispiace davvero tanto per voi che dovete sorbirvi il mio blaterare di ciccia.



martedì 4 dicembre 2012

Guardo indietro.

Due e ventisette di mattina.
Sono tired as fuck nonostante abbia anche fatto un pisolino di mezz'oretta tra una lezione e l'altra oggi.
Eppure la mia insonnia cronica mi tiene sveglia.
Da qualche giorno qui aleggia un'aria di tristezza mista a rassegnazione, mista a stanchezza mista a voglia di strafare perchè tra due settimane veniamo rispediti da dove veniamo e chi si è visto si è visto.
E quindi via alle frasi strappalacrime sulle agende durante le lezioni, via all'ennesima birretta con commento annesso "Oh pensa quando torniamo, il primo giovedì a casa ti scrivo su whatsapp per vederci alle dieci alla WTs".
Ieri da sola sul pullman, con le cuffie nelle orecchie, due o tre canzoni scoperte qui (che a voi a casa immagino facciano cagare, secondo un mio rapido sondaggio), che mi ricordano tanti stupidi momenti vissuti qui, mi è scesa una lacrimuccia.
Una, giuro.
Stanno per finire i 4 mesi più incredibili della mia vita.
Una realtà che non immagino di poter vivere, eppure eccomi qua, a due settimane dalla fine.
Un capitolo emozionante, meraviglioso e spaventosissimo della mia vita sta per finire, e in bocca rimane quel sapore dolceamaro che segue sempre un addio, o un arrivederci.
Non sono mai stata brava coi saluti.
Non riesco a staccarmi dalle persone, manco dalle cose, figuratevi.
Potessi conserverei tutto.
Sono devota al cambiamento, mi annoio presto e facilmente.
Il cambiamento è normale, naturale, vitale.
Il cambiamento ci fa cambiare punti di vista, ci fa scoprire nuovi motivi inaspettati per sorridere.
Ma quando coinvolge il salutare delle persone, proprio non mi va giù.
Non accetto la separazione.
O almeno, la accetto con il tempo.
Non sono capace a separarmi di netto. Un abbraccio veloce e via.
Sono una di quelle persone che in aereoporto abbraccia ventisette volte, e poi ancora un'ultima volta.
E poi ancora una.
E rischia di perdere il volo.
E non sa mai quando tacere, e smettere di dire cose banali e sdolcinate.
E non sa chiudere un rapporto, un periodo, una conversazione senza tirarla avanti senza senso.
I tagli netti non sono per me.
Ho sempre camminato in punta di piedi nelle vite degli altri, chiedendomi in continuazione cosa fosse meglio dire o non dire, chiedendomi come indorare la pillola, quando invece la maggior parte delle volte la pillola non va indorata ma accettata così com'è.
E devo imparare ad accettare questi saluti per quello che sono: la fine di un periodo, non di innumerevoli rapporti importanti.
I rapporti cambieranno, sentirò la mancanza.
Ma invece di lamentarmi della fine, dovrei già sorridere per un nuovo inizio.
Fatto di ritorni a casa, di abbracci, di mondo conosciuto.
E di pianificazioni di viaggi in giro per il mondo.
Perchè sono sicura che le nostre strade si incroceranno.
Presto o tardi.
Un legame come questo resiste al tempo e allo spazio.
Per ora è l'unica certezza che ho, prima di partire.



Vaneggiamenti aerei

Da vera poetessa di alto spessore culturale, mentre Lui si scoppiava un film da Oscar in stile fantascientifico sull'aereo, ho scritto questo post nelle note, promettendomi di pubblicarlo non appena arrivata. Tutto vostro.

Dopo quattro mesi e dieci giorni, di nuovo su un volo Delta.

Sembra ieri.
Seduta vicino ad un'americana che ha mangiato tutto il suo cibo più quello del marito, tanto che volevo offrirle pure il mio budino. 
Da sola, spaventata e elettrizzata allo stesso tempo.
Sembra ieri e invece é oggi e sto già tornando indietro. 
Io e praticamente un infante. 
8 chili tondi tondi.
Diciamo che quest'America mi rimarrá addosso per un bel pó.
Una settimana fa ho detto addio ad Albany.
Come al solito, sembrava che mi avessero anestetizzata.
Qualche giorno prima, salutando Marina, avevo i lacrimoni come i bimbi quando diventano tutti rossi e bramano il ciuccio.
Quando é toccato a me tutto é volato col tasto forward. 
La mattina della mia partenza me la ricordo come passata in un soffio.
Un attimo prima ero nelle mie lenzuola zebrate a ronfare allegramente e un momento dopo ero sul taxi. In mezzo ci sono state due ore di lotta contro il tempo e lo spazio.
Diciamo che quattro mesi di vita se sei me hanno bisogno di tanta roba.
Se poi hai dei problemi a controllarti quando vai al mall, ancora di più.
Ho dovuto abbandonare a Marina, nell'ordine: la mia borsa dell'acqua calda, la brocca per scaldare l'acqua, le lenzuola, le coperte, il cuscino, duemila attaccapanni e le mie preziose salviette per il sedere dei bimbi.
E nonostante l'abbandono le mie due valige avevano lo stesso il peso specifico del piombo. 
Un grazie a Stephen che se le é trascinate giù dalle scale.
Rischiando l'ernia ad ogni passo.

Insomma.
Ho chiuso la porta della mia stanza velocemente, un ultimo sguardo per controllare se avessi lasciato qualcosa di basilare, tipo, che ne so, il passaporto.
Niente sguardi languidi che durano ore, niente carezze al legno della scrivania (?), niente mano appoggiata sul vetro dalla finestra guardando fuori.
Dite che ho visto troppi film?
Il resto lo sapete già.
In un attimo ero nel taxi.
E l'attimo dopo nella stazione dei pullman.
E poi sul bus.
Che ha deciso di fare una deviazione passando dal Bronx.
In ogni caso, passare il Natale a New York mi ha un pó distratta.
Tipo ora mi sento come se fossi arrivata qui il 20 dall'Italia.
Poi ripenso alla fatica che ho fatto per trascinare le valige in metro fino all'aeroporto e mi ricordo quanta roba avevo.
Possibile che questo semestre stia già svanendo?
Che stia giá sfumando nei ricordi?
Che stia lasciando un gusto dolce in bocca, come quei momenti preziosi dell'infanzia, anche se non ti ricordi esattamente cosa é successo?
Le altre, che sono già a casa da qualche giorno, dicono che una volta messo piede oltre la soglia di casa sembra di non essere mai partite.
Buffa la nostra memoria.
Più tenta di afferrare un ricordo, di renderlo nitido, di disegnarne i contorni, più il ricordo sfugge.
Si deforma, si frantuma e a noi rimangono dei pezzi.
Per esempio, adesso tutto mi sembra compresso.
Non ricordo esattamente la lunghezza dei mesi. 
Novembre é volato come esattamente le prime due settimane di dicembre.
Dove sono finiti i giorni?
Come hanno fatto a contrarsi e sgusciare via così?

Ma i miei sensi funzionano meglio di qualsiasi tipo di sforzo mentale per ricordare.
E' facile con la vista: ricordo perfettamente ogni momento attaccato ad una fotografia, mentre i giorni in cui non ne ho fatte sono più sottili, più impalpabili.
Allo stesso modo le canzoni sono attaccate a dei momenti.
Non potrò più ascoltare "Work Out" senza ricordarmi che era la sveglia di Marina.
Né "Mr. Wonderful" senza pensare a me Sara camminando a ritmo di musica per Western Avenue.
Né "Die Young" senza ricordare la sera del compleanno di Alice a bere qualche birra nella sua stanza. 
Né Gangnam style senza ricordare quella sera in quel bar anonimo nel Wisconsin, a ballare con nuovi amici con una spensieratezza che chissá se ritroverò mai. 
Né Alright di Pitbull senza pensare allo sculettamento mio e di Marina a zumba. 
Anzi, la sto ascoltando in questo momento e sto iniziando a dondolare a destra e a sinistra.
Credo che il mio vicino intellettuale alla mia sinistra sia già spaventato.
E abbiamo ancora sei ore di volo.
Non riesco ancora a capacitarmi del fatto che tra sei ore planerò nella terra dove tutti parlano italiano.
Sembro demente, me ne rendo conto.
Ma essere circondata da gente che parla un'altra lingua all'inizio fa strano, poi ti abitui. A crearti il tuo guscio, dove loro non possono capirti ma tu puoi capire loro, puoi interagire ma allo stesso tempo distanziarti.
E a casa questo tipo di privacy sconosciuta non si può avere.
Comunque.
Dicevo.
L'olfatto rimarrà sempre il senso che mi emoziona di più. 
L'altro giorno camminavo per New York e per un attimo mi é arrivata un'ondata di odore di lavatrice.
Lo stesso odore indescrivibile di quando scendevo nel seminterrato con il mio sacchetto di roba da lavare e il profumo caldo di pulito mi inondava le narici. 
L'odore di camera di Marina allo stesso tempo.
Un misto del suo profumo, delle sue maledette candele profumate (confiscate dopo tipo due settimane) e del suo detersivo.
L'odore che c'era nelle classi.
L'odore del profumo di Lorraine ogni volta che ci abbracciavamo per dirci "I will miss you so much"
L'odore delle salviette profumate che usavo per spolverare.
L'odore di fritto che mi rimaneva addosso ogni santa volta che scendevo a mangiare. 
Ecco quest'ultimo spero di non sentirlo per un pó.
L'America mi ha lasciato non so quanti ricordi, mi ha vista crescere velocemente in quattro mesi (e NO, non solo in larghezza, maledetti malpensanti) e grazie a lei d'ora in poi guarderò il mondo con occhi un pó diversi.
Un pó piú globalizzati.
Un pó piú grassi.
Un pó piú "yo!"
Un pó piú grandi.

Ed é il regalo più bello che questo paese potesse lasciarmi. 

Are you coming home?


Cause di forza maggiore (leggi: impacchettamento, addii e mancanza di wifi) nessun post all'ultimo momento prima di lasciare quel buco che mi ha accolta per ben 4 mesi.
Forse é stato meglio così.
Primo post dal mio nuovo bambino. 
E adesso faccio i conti con l'ultima notte a NYC. Ultima notte negli States. 
L'ultima volta che ho dormito nel mio letto é stata la notte del 17 agosto. 
Per quattro mesi mi sono addormentata in letti sconosciuti, uno dei quali era quasi diventato casa. 
Il mio odore ci era rimasto impresso sopra. Non nelle lenzuola. Proprio nel letto. 
Nel materasso, nelle doghe, nel legno. 
La stanza 306 avrà per sempre un pó del mio odore, non importa chi ci dormirà. Chissá chi, poi. 
In ogni caso, sono nella mia minuscola stanza nel cuore di Manhattan, oggi ha nevicato potentemente e mi sono bagnata fino all'osso. Tento invano di far entrare tutto nelle valige. 
Sono così agitata che non so descriverlo.
Il semestre che ho appena passato é così vivido nella mia mente e allo stesso tempo così sfocato, come fosse stato tutto un sogno. 
Solo una settimana fa salutavo tutti.
Mi aspettavo singhiozzi, lacrime, nasi rossi e mascara colato.
E invece, composta e sorridente, ho abbracciato tutti, uno per uno, con la promessa di rivederci presto.
Sono salita sul mio taxi, unito pollici e indici a forma di cuore dal finestrino, e guardato per l'ultima volta tutti loro fuori dall'Alumni, con un sorriso.
Ok, ho iniziato a piagnucolare appena girato l'angolo.
Ma per pochino.
Non ho ancora realizzato il tutto, credo.
Forse penso solo di prendere il pullman che mi riporta lí, domani.
invece che un volo Delta che mi recapita a Malpensa.

Quante parole che avrei da dire, quanto sonno che ho in questo momento e quanto groppo in gola che mi si sta creando. 
Ho troppi pensieri ingarbugliati. Mi toccherà sbrogliarli.
Prima o poi.
Non adesso.
Fare i conti con troppe cose contemporaneamente non é da me.

Le metto tutte in stand by per qualche giorno.
Finché non saró rincoglionita dal jet-lag e odore di casa.
Allora sí, che sará il momento di fare i conti con i miei nodi alla gola.



Are you coming home?

#leaveamessage




Mi faccio promotrice di una cosa carinissima, a cui ho partecipato anche l'anno scorso.
Se siete anche solo curiosi, cliccate proprio qui che non fate fatica e questa iniziativa è senza sforzo ma di grande effetto.
Come dice l'hashtag, #leaveamessage è un modo per sorridere anche quando le cose vanno in mer non proprio come vorremmo.
Si tratta semplicemente lasciare dei bigliettini in giro per la vostra città, in posti facilmente raggiungibili, con frasi positive, buffe, che facciano ridere, che facciano scompisciare il prossimo.
Insomma, qualcosa di carino che vorremmo che fosse detto a noi.
Per dire, non "sono solo le otto di mattina, hai le occhiaie ma la tua giornata può ancora peggiorare, potresti tipo pestare una cacca con le tue Loboutin nuove".
Ma qualcosa del tipo "Dopo l'ufficio premiati col calendario della Santarelli, te lo meriti". "Regalati un massaggio questo weekend, il tempo dedicato a te è sempre il migliore"
Insomma, capito il concetto, no?
Ficcateli in un libro della biblioteca, tra i giornali al bar, in una cassetta delle lettere, sui banchi di scuola.
L'unico senso che ha questa iniziativa è sorprendere positivamente.
Quest'anno l'iniziativa sostiene anche l'Ospedale Meyer, per sapere tutto vi rimando al link di cui sopra.

Io lo faccio da qui.
Voi fatelo a casa, anime aride che non siete altro.
Trovate dieci minuti per scrivere due frasi carine, e spargete un pò di buonumore nel mare di cinismo in cui ci troviamo in questo periodo.
Combattiamo la nostra pigrizia e la nostra mancanza di iniziativa con questa trovata carinissima.
E' gratis e comporta sforzo pari a zero.

Se avete twitter, twittate l'hashtag #leaveamessage e il luogo dove avete lasciato il bigliettino, e la città, così che possa essere trovato più facilmente.

Spargete la voce, condividete questa pagina o il link a cui vi ho rimandati, e piegati quegli angoletti della bocca all'insù.


L'America che (mi) cambia

Questi ultimi giorni scorrono veloci ma allo stesso tempo lenti, trascinati, come quando al mattino ti vuoi godere quegli ultimi minuti di tepore nel letto stropicciandoti sotto le coperte.
Ecco, questa è esattamente la sensazione che io, e credo tutti, stiamo provando.
Scrivo dal tavolo della stanza comune, procrastino la mia doccia (finirò a farla ad un'ora indecente tipo le due), puzzo di patatine fritte e cibo cinese.
Perchè stasera ho fatto cena due volte.
Una alle sei tornata dal mall (ve l'ho detto che qui sono strani, io alle sei a casa non ho ancora nemmeno preso l'aperitivo), e una adesso. Ma siccome adesso la dining hall è chiusa, abbiamo ordinato cinese.
Può una persona avere meno ritegno di me nel cibo?
Non credo.
Stiamo facendo finta di studiare.
O almeno, io.
Mi sfugge come mai qui un esame può essere un paper.
Va bene, forse è il caso che mi spieghi un pelino meglio.
Ogni corso è semestrale, il tuo voto è la somma di puttanate come quiz, partecipazione, presenza (le lezioni sono obbligatorie), test, presentazioni, assignments, test.
Ha un vago senso.
Anche se l'esame finale a dicembre vale tipo il 15% del voto.
Ma il bello è che per alcuni corsi gli esami non esistono.
Il mio corso di letteratura ha due cosiddetti esami. Uno a metà semestre e uno alla fine.
Entrambi sono sottoforma di take home exam.
Ovvero, un saggio di una decina di facciate, sui libri che (non) ho letto in classe.
Cioè, ricapitolando.
La presenza è obbligatoria. Punti pieni.
Niente presentazioni per questo corso.
Due midterm da scrivere a casa.
Il tempo a disposizione è una settimana.
Non cinque ore.
Una settimana.
Niente esame.
Questo vuol dire niente ripassi notturni, niente ripetere per ore a madre, padre, amici, fidanzati, cani, gatti.
Vuol dire niente cagotto nelle sedici ore che devi aspettare prima di dare il tuo orale.
Niente sensazione di svenimento/vomito imminente/bisogno di un pannolino nel momento in cui il professore chiama il tuo nome.
E' il paradiso universitario.
Per un altro corso ho avuto l'esame, devo ammetterlo.
Ma ho avuto le domande una settimana prima.
No, non le ho rubate.
Il professore non voleva tenderci una trappola o cosa, ma solo verificare che avessimo capito i punti critici del corso.
Così ci ha dato le domande, tre, molto ampie, e abbiamo dovuto sceglierne due.
La settimana dopo abbiamo dovuto rispondere in due ore alle domande scelte.
C'è gente che ha preso D.
Che è tipo un 18 scarso.
Io non sono un genio e passo la maggior parte del mio tempo a cazzeggiare, come avrete capito.
Ma quando c'è da studiare il mio impegno ce lo metto.
Magari faticosamente, eh.
Però la mia porca figura riesco a farla quasi sempre.
Quindi sono qui, che non ho ancora le domande per i miei take home exams, a passare il tempo.
Mangiando, ovviamente.
E comprando.
Ogni tanto dò uno sguardo all'armadio, il letto, i cassetti, e alle mie due valige.
Alterno lo sguardo parecchie volte.
Ma non esiste nessuna legge della fisica che mi rassicuri.
Tutta la mia roba non entrerà mai in quelle due valige.
E il momento di impacchettare tutto è sempre più vicino.

Mioddio, non fatemi pensare al momento in cui chiuderò la porta della stanza vuota per l'ultima volta.

Ps. E' arrivato anche il momento fescion blogger.
Chiamatemi pure la Ferragni dei poveri.
Non ho resistito e ho comprato due rossetti della Mac oggi.
Che in Italia costano na fucilata (lo so perchè ho controllato su internet, ho messo il rossetto tre volte nella mia vita credo.) ma qui sono decisamente più cheap.
Un rosso chiamato Ruby (tutto un programma) e un rosa shocking firmato Nicki Minaj (sta andando a ruba! Affrettati! Mi disse con testuali parole la commessa).
Questi quattro mesi hanno contribuito alla mia crescita, e a capire come anche le piccole cose cambiano in un soffio.
Qui ho sperimentato anche il mio debutto nel mondo del makeup che conta.
Quelli che si chiamano i traguardi di una vita, insomma.
Avevo un rossetto, una volta. Pagato tipo due dollari non so dove.
Di quelli che se li prendi in regalo nei giornaletti da adolescente rischi di prenderti pure una malattia.
Non sono mai andata oltre il mascara di Maybelline e il phard di Deborah.
Ora metterei il rossetto di Mac pure per andare al cesso.
(Come vedete la finezza che mi contraddistingue non è mai cambiata. Rassicuratevi)
Quindi ho trovato un nuovo modo per spendere i (non) miei soldi.
Padre, mi leggi?

Sgoccioli.




13 giorni rimasti ad Albany.
20 negli Stati Uniti.
Scrivo come al solito dalla mia vecchiotta scrivania, Waterbury Hall, stanza 306.
Dio come non dimenticherò questo loculo dalla finestra che non riesco mai ad aprire, (e quando ci riesco mi strappo due o tre muscoli della spalla), dal materasso foderato da qualcosa di lucido e scivoloso così le mie lenzuola di microfibra alla sera sono perfette e al mattino sembra che otto gatti abbiano giocato nel mio letto, (Badate che ho detto gatti e giocare. La mia fantasia sarebbe potuta andare molto più lontano), dai cassetti perennemente incastrati che una volta a forza di tirare mi è venuto via tutto.
Mi mancherà chiamare questo posto casa, tornarci dopo un weekend via e accasciarmi sul letto come quando si torna davvero, a casa.
Come vedete la settimana scorsa ha nevicato.
Prima e (chissà) ultima nevicata che abbiamo visto ad Albany.
Era esattamente la notte tra il 30 novembre e il primo dicembre, per essere precisi era l'una di notte e noi fuggivamo dall'house party di fronte al dormitorio perchè era arrivata la polizia.
Ehm.
Poco poetico lo so.
Ma divertente come non mai, posso assicurarvelo.
Abbiamo giocato nella neve in collant e cappottino autunnale all'una di notte.
Roba che se lo sa mia madr...Ops.



Mi mancherà persino passare la mia Suny Card all'entrata a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Tornare a casa dopo due fette di pizza da Di Carlito's, o una barcata di noodles dal cinese all'angolo.
Nel weekend abbiamo progettato e fatto realizzare delle magliette tutte uguali con il motto di questi quattro mesi.
Qualcosa di dolce e zuccheroso? Tipo vi vorrò bene per sempre?
Non esattamente.
Eccovele qui.


Insomma, ognuno ha i suoi modi per dirsi ti voglio bene, no?
Voi poi non lo sapete, ma dopo aver scritto queste due righe e postato la foto sono rimasta tipo trenta secondi a scrutarmi. Nella foto, dico.
Non esiste una parte di me che non sia ricoperta da un sottile strato di grasso.
Tranne la faccia, quella è direttamente farcita da due ghiande nelle guance come se fossi Cip.
O forse Ciop. Quello un pò più rinco.
Ringrazio di aver preso la decisione di andare in America nel primo semestre, così quando torno non sarò costretta a sfoggiare bikini inglobati nelle mie nuove e sfavillanti maniglie dell'amore, ma trascinerò la mia ciccetta in esubero ben nascosta dal parka.
La domanda del secolo è: tornerò mai normale?
Non ho idea della quantità precisa di chili (ma tranquilli: il simpatico ometto che io chiamo Padre vuole portare una bilancia in aereoporto il giorno del mio ritorno, giusto per essere sicuri), ma ho constatato che si possono avere rotolini anche dove non pensavo potessero esistere.
Tipo dietro al collo quando piego la testa.
O sulle spalle.
O sulla schiena quando mi giro a destra e a sinistra.
A voja di fare zumba, avrei dovuto darmi al boot camp, maledizione.

Comunque, in attesa di sapere se mi ci vorrà una rapida lipo o semplicemente qualche mese di cibo normale,
posso dire di essere ingrassata e felice.

Ps. mi dispiace davvero tanto per voi che dovete sorbirvi il mio blaterare di ciccia.



Guardo indietro.

Due e ventisette di mattina.
Sono tired as fuck nonostante abbia anche fatto un pisolino di mezz'oretta tra una lezione e l'altra oggi.
Eppure la mia insonnia cronica mi tiene sveglia.
Da qualche giorno qui aleggia un'aria di tristezza mista a rassegnazione, mista a stanchezza mista a voglia di strafare perchè tra due settimane veniamo rispediti da dove veniamo e chi si è visto si è visto.
E quindi via alle frasi strappalacrime sulle agende durante le lezioni, via all'ennesima birretta con commento annesso "Oh pensa quando torniamo, il primo giovedì a casa ti scrivo su whatsapp per vederci alle dieci alla WTs".
Ieri da sola sul pullman, con le cuffie nelle orecchie, due o tre canzoni scoperte qui (che a voi a casa immagino facciano cagare, secondo un mio rapido sondaggio), che mi ricordano tanti stupidi momenti vissuti qui, mi è scesa una lacrimuccia.
Una, giuro.
Stanno per finire i 4 mesi più incredibili della mia vita.
Una realtà che non immagino di poter vivere, eppure eccomi qua, a due settimane dalla fine.
Un capitolo emozionante, meraviglioso e spaventosissimo della mia vita sta per finire, e in bocca rimane quel sapore dolceamaro che segue sempre un addio, o un arrivederci.
Non sono mai stata brava coi saluti.
Non riesco a staccarmi dalle persone, manco dalle cose, figuratevi.
Potessi conserverei tutto.
Sono devota al cambiamento, mi annoio presto e facilmente.
Il cambiamento è normale, naturale, vitale.
Il cambiamento ci fa cambiare punti di vista, ci fa scoprire nuovi motivi inaspettati per sorridere.
Ma quando coinvolge il salutare delle persone, proprio non mi va giù.
Non accetto la separazione.
O almeno, la accetto con il tempo.
Non sono capace a separarmi di netto. Un abbraccio veloce e via.
Sono una di quelle persone che in aereoporto abbraccia ventisette volte, e poi ancora un'ultima volta.
E poi ancora una.
E rischia di perdere il volo.
E non sa mai quando tacere, e smettere di dire cose banali e sdolcinate.
E non sa chiudere un rapporto, un periodo, una conversazione senza tirarla avanti senza senso.
I tagli netti non sono per me.
Ho sempre camminato in punta di piedi nelle vite degli altri, chiedendomi in continuazione cosa fosse meglio dire o non dire, chiedendomi come indorare la pillola, quando invece la maggior parte delle volte la pillola non va indorata ma accettata così com'è.
E devo imparare ad accettare questi saluti per quello che sono: la fine di un periodo, non di innumerevoli rapporti importanti.
I rapporti cambieranno, sentirò la mancanza.
Ma invece di lamentarmi della fine, dovrei già sorridere per un nuovo inizio.
Fatto di ritorni a casa, di abbracci, di mondo conosciuto.
E di pianificazioni di viaggi in giro per il mondo.
Perchè sono sicura che le nostre strade si incroceranno.
Presto o tardi.
Un legame come questo resiste al tempo e allo spazio.
Per ora è l'unica certezza che ho, prima di partire.