mercoledì 23 gennaio 2013

Quello che non ti aspetti

Mi ero ripromessa di scrivere sull'ultima settimana che ho passato in suolo statunitense, poi uno torna, si vede riappioppati i problemi che erano svaniti magicamente in quattro mesi di alienazione, e niente, non si ha avuto tempo.

Adesso lo si ha.
L'ultima settimana americana l'ho passata, indovinate voi dove?
Esatto.
In quello che è stato il crocevia di tutti i miei spostamenti in giro per gli stati, quello dove ho preso aerei, treni e pullman, dove ormai conoscevo a memoria Porth Authority, la stazione dei pullman, dove sono arrivata per l'ultima volta, in quei quattro mesi.

Ho passato il Natale a New York.
Per la prima volta, il giorno di Natale, ho visto New York addormentata, assopita, stropicciata.
I negozi chiusi, il vento forte di mare che trascinava foglie, cartacce, e pure senzatetto, qui e là, senza meta.
Persino il colosso di Macy's, in pieno centro, aveva le vetrine sfavillanti spente e le serrande abbassate.
Non male per la città che non dorme mai.
Ma in quel momento, vedendola spogliata dei suoi miti, della sua forza, delle sue luci, del suo vociare, con me e i pochi temerari che hanno sfidato la pioggia del 25 dicembre mista a neve per gironzolare all'aria aperta, mi sono sentita quasi a casa.
Il nesso sarà anche poco logico, ma la sensazione di sapere che ogni città si assopisce, si accoccola davanti al camino (che, peraltro, non ho mai avuto) dopo il pranzo di Natale, dove comunque una piccola minoranza preferisce andare al ristorante, soprattutto uomini d'affari russi e turisti, insomma questa sensazione, mi ha fatto sentire a casa.
Dove dopo pranzo alcuni valorosi escono di casa, più per esigenza di digerire che per voglia, e camminano lenti e imbottiti di cibo per le vie grigiognole senza nessun segno apparente di vita.
Perchè Natale è uguale a Savona come a New York.
Sono cose.

Ho sbirciato dentro finestre illuminate anche lì. Dentro Finestre moderne, con gli infissi scintillanti, in grandi grattacieli misto vetro, e cosa ci ho visto?
Una luce gialla, calda, in netto contrasto col nero lucido e freddo del guscio esterno, che faceva da contorno ad un enorme albero di Natale addobbato con cura.
Come poteva essere il mio.

Ora, sarò un cuore di panna, ma non ho mai potuto fare a meno di trovare il lato umano di tutte le città che ho visitato.
Il cuore pulsante, quello che va oltre al turismo, allo shopping, ai ristoranti in voga, ai locali dove si fa la coda fuori, alle viste famosi, ai musei e alle foto inflazionate. (Che ho fatto anche io, non preoccupatevi.)
Infatti, parlando di New York, ne avevo già parlato qui.
Quando inizi ad entrare in confidenza con una città, come con un'amica, non ti importa più di vederla ben truccata, con la piega, la tinta appena fatta, i vestiti stirati che sanno di detersivo.
Quando si entra in confidenza ci si vede in pigiama, col trucco un po' colato, con l'occhiaia che fa capolino.
Lo stesso mi succede con le città, e prima di New York mi era successo con Milano, con cui ho avuto il tempo di rapportarmi abbastanza a lungo, e passare dal detestare quella sua puzza sotto il naso, quel traffico impazzito e quella sua voglia di mostrarsi, ad amare dettagli più sottili, invisibili all'occhio famelico del turista.

E il cuore pulsante di New York l'ho trovato non sull'Empire State Building, non nel MoMa, non sulla crociera sull'Hudson (in ogni caso da togliere il fiato) ma nelle stradine del Greenwich Village, del Garment District, di Tribeca, di Chelsea. Dove ho trovato posticini piccoli e invitanti dove mangiare, anche il giorno di Natale, pochi negozi aperti e i resti di qualche mercatino di Natale. Sorseggiando Apple Cider bollente e tè allo zenzero e miele, così in contrasto col freddo pungente che arriva dall'oceano.

Il cuore pulsante l'ho trovato nella metropolitana, in quel budello infinito e puzzolente che si muove silenzioso sotto le strade di Manhattan, quando il 24 dicembre un gruppo di quattro uomini di mezza età di colore, muniti solo di cappello di Babbo Natale, hanno cantato Jingle Bells acappella con un'intonazione perfetta, un sorriso così aperto e bianco sui loro visi tesi e stanchi, con una gioia che faceva apertamente contrasto con le facce tese dei NewYorkesi. Il cuore pulsante è esploso quando tutto il vagone ha tolto le mani dai guanti, dalle tasche dei cappotti, per scoppiare in un applauso felice, genuino, non forzato, un applauso per quei due minuti di felicità e allegria genuina che sono così difficili da trovare in metropolitana all'ora di punta.

Come al solito, inutile descrivere la vista dall'Empire, i corridori professionali e non in Central Park, il Top of The Rock o le luci di Natale del Rockefeller Center.
A me piace la New York un pò così.
Che mi ricorda casa.








Nessun commento:

Posta un commento

Quello che non ti aspetti

Mi ero ripromessa di scrivere sull'ultima settimana che ho passato in suolo statunitense, poi uno torna, si vede riappioppati i problemi che erano svaniti magicamente in quattro mesi di alienazione, e niente, non si ha avuto tempo.

Adesso lo si ha.
L'ultima settimana americana l'ho passata, indovinate voi dove?
Esatto.
In quello che è stato il crocevia di tutti i miei spostamenti in giro per gli stati, quello dove ho preso aerei, treni e pullman, dove ormai conoscevo a memoria Porth Authority, la stazione dei pullman, dove sono arrivata per l'ultima volta, in quei quattro mesi.

Ho passato il Natale a New York.
Per la prima volta, il giorno di Natale, ho visto New York addormentata, assopita, stropicciata.
I negozi chiusi, il vento forte di mare che trascinava foglie, cartacce, e pure senzatetto, qui e là, senza meta.
Persino il colosso di Macy's, in pieno centro, aveva le vetrine sfavillanti spente e le serrande abbassate.
Non male per la città che non dorme mai.
Ma in quel momento, vedendola spogliata dei suoi miti, della sua forza, delle sue luci, del suo vociare, con me e i pochi temerari che hanno sfidato la pioggia del 25 dicembre mista a neve per gironzolare all'aria aperta, mi sono sentita quasi a casa.
Il nesso sarà anche poco logico, ma la sensazione di sapere che ogni città si assopisce, si accoccola davanti al camino (che, peraltro, non ho mai avuto) dopo il pranzo di Natale, dove comunque una piccola minoranza preferisce andare al ristorante, soprattutto uomini d'affari russi e turisti, insomma questa sensazione, mi ha fatto sentire a casa.
Dove dopo pranzo alcuni valorosi escono di casa, più per esigenza di digerire che per voglia, e camminano lenti e imbottiti di cibo per le vie grigiognole senza nessun segno apparente di vita.
Perchè Natale è uguale a Savona come a New York.
Sono cose.

Ho sbirciato dentro finestre illuminate anche lì. Dentro Finestre moderne, con gli infissi scintillanti, in grandi grattacieli misto vetro, e cosa ci ho visto?
Una luce gialla, calda, in netto contrasto col nero lucido e freddo del guscio esterno, che faceva da contorno ad un enorme albero di Natale addobbato con cura.
Come poteva essere il mio.

Ora, sarò un cuore di panna, ma non ho mai potuto fare a meno di trovare il lato umano di tutte le città che ho visitato.
Il cuore pulsante, quello che va oltre al turismo, allo shopping, ai ristoranti in voga, ai locali dove si fa la coda fuori, alle viste famosi, ai musei e alle foto inflazionate. (Che ho fatto anche io, non preoccupatevi.)
Infatti, parlando di New York, ne avevo già parlato qui.
Quando inizi ad entrare in confidenza con una città, come con un'amica, non ti importa più di vederla ben truccata, con la piega, la tinta appena fatta, i vestiti stirati che sanno di detersivo.
Quando si entra in confidenza ci si vede in pigiama, col trucco un po' colato, con l'occhiaia che fa capolino.
Lo stesso mi succede con le città, e prima di New York mi era successo con Milano, con cui ho avuto il tempo di rapportarmi abbastanza a lungo, e passare dal detestare quella sua puzza sotto il naso, quel traffico impazzito e quella sua voglia di mostrarsi, ad amare dettagli più sottili, invisibili all'occhio famelico del turista.

E il cuore pulsante di New York l'ho trovato non sull'Empire State Building, non nel MoMa, non sulla crociera sull'Hudson (in ogni caso da togliere il fiato) ma nelle stradine del Greenwich Village, del Garment District, di Tribeca, di Chelsea. Dove ho trovato posticini piccoli e invitanti dove mangiare, anche il giorno di Natale, pochi negozi aperti e i resti di qualche mercatino di Natale. Sorseggiando Apple Cider bollente e tè allo zenzero e miele, così in contrasto col freddo pungente che arriva dall'oceano.

Il cuore pulsante l'ho trovato nella metropolitana, in quel budello infinito e puzzolente che si muove silenzioso sotto le strade di Manhattan, quando il 24 dicembre un gruppo di quattro uomini di mezza età di colore, muniti solo di cappello di Babbo Natale, hanno cantato Jingle Bells acappella con un'intonazione perfetta, un sorriso così aperto e bianco sui loro visi tesi e stanchi, con una gioia che faceva apertamente contrasto con le facce tese dei NewYorkesi. Il cuore pulsante è esploso quando tutto il vagone ha tolto le mani dai guanti, dalle tasche dei cappotti, per scoppiare in un applauso felice, genuino, non forzato, un applauso per quei due minuti di felicità e allegria genuina che sono così difficili da trovare in metropolitana all'ora di punta.

Come al solito, inutile descrivere la vista dall'Empire, i corridori professionali e non in Central Park, il Top of The Rock o le luci di Natale del Rockefeller Center.
A me piace la New York un pò così.
Che mi ricorda casa.








Nessun commento:

Posta un commento