martedì 16 dicembre 2014

E' Natale e io corro

-L'adorabile foto è di Gail Albert Halaban-

Al liceo studiando Bergson ho sempre trovato geniale la divisione tra tempo esteriore e tempo interiore, lui e la sua precisione così francese a spiegarci con estrema razionalità e filosofia che il tempo scandito dalle lancette dell'orologio è ben diverso da quello percepito da ogni individuo. 


D'accordissimo. 

Al tempo però fissavo solo con impazienza il display del mio telefonino pregando che passasse in fretta l'ora di chimica perché non capivo una mazza. 


Tutto qui. 

Crescendo ho pensato come Bergson non abbia mai parlato, però, di tutto quel tempo vissuto alla rinfusa, senza che passi lentamente né velocemente, nel quale si viene sballottati qua e là tipo la giostra delle tazze a Disneyland, peraltro con la stessa sensazione di vomito imminente. 
Quel tempo in cui in un attimo ti ritrovi da una città ad un'altra senza ricordare il sedile del treno che hai appena preso, perché eri troppo occupata a ripassare per quell'esame che hai tra due gior no, in realtà hai passato metà del tempo a sbirciare nelle case altrui, quelle affacciate sulla ferrovia, sempre le stesse in cui sbirci ad ogni viaggio, una volta con le tende scostate e la luce gialla del lampadario alla sera, all'ora di cena, e una volta con la signora in grembiule che spazza il poggiolo. 



Bergson non ha mai parlato del tempo che passa veloce non perché sia necessariamente un bel momento, ma perché il cervello non riesce a soffermarsi, a capirlo, a gustarlo. 

Il cervello diciamo che non riesce punto. 
E allora la vita scorre un po' così, in quella non-beatitudine di chi non capisce, di chi non afferra quell'unico particolare che potrebbe far capire tutto. (The story of our lives, insomma) 
Scorre che ieri ero in una farmacia corsa a blaterare qualcosa in francese per avere una pomata contro le punture di medusa e domani è Natale, un semestre di università è passato e torno a dare esami come se nell'ultimo anno e mezzo non avessi fatto altro e invece ho fatto tutt'altro, e nei ritagli di tempo bazzico per negozi scintillanti e orrendamente addobbati cercando regali, tra le facce perplesse e spaesate degli uomini e quelle rapaci e pronte ad accaparrarsi l'ultima occasione delle donne. 
Menomale che esistono, gli uomini sotto Natale. 

Quasi tremano nelle Feltrinelli, da Zara, da Tiger, nascondendosi tra gli scaffali come i cani durante un temporale, con quell'occhio piegato all'ingiù dei bassethound e le mani intrecciate dietro la schiena, a volte con qualche sacchetto rosso e oro in mano, chiedendosi cosa diamine si cucinerà il quel fornetto del reparto smalti, forse un toast formato mignon, quanti brillantini debba avere un'agenda per piacere alla fidanzata o di che colore debbano essere i cuori del plaid di pile per la madre. 
Un po' tristi un po' con il mio sguardo del liceo nell'ora di chimica, con quella tipica espressione da "speriamo passi presto".
Menomale che esistono perché sono solidale con loro.
Ma per poco.
Perché sono già sulla cyclette a sudare via la focaccia del pomeriggio. 
E' Natale e io corro. 

mercoledì 26 novembre 2014

La mia violenza.


Era il 25 novembre, è stato il 25 novembre. 
Un 2 e un 5 pieni sino all'orlo di parole forti, eleganti, determinate. 
Niente violenza. 
Niente violenza sulle donne. 

Consapevolezza. Forza di reagire.

E già è parecchio inquietante che ci sia il bisogno di ricordarsi, un giorno all'anno, che legnare le donne, ma soprattutto chiunque, non è carino. È un po' peggio di dimenticarsi l'anniversario.
Ma il risvolto che più fa rabbrividire, quello che scivola tra le pieghe dei luoghi comuni e dei volti di donna con l'occhio nero spalmati su tutti i muri, quello che si nasconde dietro le campagne mediatiche sui social, adorabili con i propri hashtag, anni luce prima dei convegni con gli psicologi e gli assistenti sociali, è quello degli altri 364 giorni.
Quelli della vita quotidiana, quelli prima di una relazione, quelli prima di.
La mia violenza, ma anche la tua, la sua, quella della mia farmacista, è così banale e perfettamente mascherata che non ha le forme della violenza. 

Non lascia lividi, non spinge giù dalle scale, non telefona di notte a tutte le ore minacciandomi. 

Non ha le sembianze del femminicidio, che se word me lo dà errore un diamine di motivo ci sarà.

Ma lascia l'amaro in bocca quando in treno il signore di mezza età, seduto di fronte a me, con la ventiquattrore di pelle e il cellulare in mano lo alza con nonchalance, altezza volto, e finge di concentrarsi su un messaggio. Finché non si sente distintamente un click tipico della fotografia.
Lascia l'amaro in bocca quando i consigli della sessuologa sbandierati sulle riviste sostengono che per mantenere alta la libido di coppia siano le nostre, di chiappe, a dover essere stringate e circondate da fili di lustrini, anche a gennaio, e le nostre, di gambe, perfettamente depilate, e le nostre, di sopracciglia, che non prendano possesso dell'intera faccia come quella della -pur meravigliosa- adorabile Frida Kahlo.
Lascia l'amaro in bocca quando le calze nere e il tacco che indosso con -ben poca- disinvoltura per una cena elegante sembrano essere il corrispondente segnico di un cartello con scritto "la calza nera l'ho messa per te, buon uomo che mi fissi sul pullman".
Lascia l'amaro in bocca quando nel tuo lavoro e in una presentazione "come sei carina sul palco" mentre i tuoi colleghi "come sono professionali".

Lascia l'amaro in bocca quando si pensa che l'umanità intera, uomini e donne, dovrebbe ragionare a fondo sul fatto di questa mania di catalogare il sesso femminile quello "debole". E soprattutto decidere se lo sia sempre, in ogni circostanza, o solo quando fa comodo (agli uni e agli altri).

E' sesso debole solo quando ci si fa offrire l'aperitivo o si entra gratis nei locali ma è sesso forte quando si chiede la parità sul lavoro. E al contrario è parità dei sessi quando la valigia me la devo camallare per sei rampe di scale in stazione Principe senza che un buon samaritano muscoloso mi presti le sue braccia, ma non lo è quando invece guido, che, in quanto donna, direziono il mio automezzo ad canis cazzum. Lascia l'amaro in bocca quando sembra che la parola sindaca, assessora e avvocatessa siano la priorità nel mondo lavorativo, culturale e sociale dei paesi avanzati.

Quando basterebbe molto meno.

lunedì 17 novembre 2014

Momento. Momento.


C'è qualcosa che non quadra, l'orologio che perde un giro di lancette, la giornata che salta due o tre ore. Il tempo scivola via tra le mani manco fosse la sabbia fine di Palombaggia.
Manca una nota, un battito, un diamine di ritmo. Tutto sincopato e gira intorno.
In tondo.
E la palestra? E due passi di danza, così, en passant, in settimana?
E no non c'è tempo. E spiegalo a quel morbido strato di cellulite che mi avvolge le cosce con dolcezza, lento e subdolo, che non c'è tempo per la zumba delle 19.
E una qualsiasi attività fisica che non sia andare avanti e indietro per il mio corridoio lungo come quelli dell'albergo di Shining.
E "ma da Decathlon la cyclette base costa 89 euro".
"La faccio la mattina prima di controllare le mail e andare a lezione".
"No dai, la biblioteca al terzo piano a piedi no".
E il regionale Genova-Savona, e porcaccia le lenti a contatto sono a Genova e io sono a Savona.
E le camminate a passo spedito per vico San Luca, la mia arteria conosciuta. E prendere un vicolo a destra, ma che pittoresco, e cambia universo, lingua e paesaggio. 
E giri in tondo senza meta, gli occhi che scrutano ogni volto, ogni taglio di altri occhi, ogni accento. In silenzio.
E inerpicati su per la salita di piazza Sarzano. E il mare e le nuvole tra le gru. E respirare. E la sopraelevata lì sotto, lingua grigia interminabile.
"Ma da quando nei kebab ci sono le patatine fritte? Dai però, non le volevo"
Poco importa se la salsa piccante mi cola tutta giù per il mento e plana sul selciato con un secco splat,  ci si asciuga la bocca col dito e intanto si spazzano via dalla faccia le paranoie.
E salta il tempo, rallenta, inchioda, riparte, frena e poi di nuovo.
E tempo di chiudere gli occhi che il dado è tratto, show must go on, ma anche no, al diavolo la coerenza.
E pretendere di essere capita quando nemmeno si ha un filo del discorso.
E pretendere di essere.
E pretendere.
E non c'è bisogno di chiedere scusa.
E la calma di un lunedì sera.
Momento. Momento.


domenica 9 novembre 2014

Così impari


C'è il vento, la notte buia e tempestosa. Du gocce. La trama da romanzo c'è.
C'è il silenzio di stanze vuote.
Ci sono le imprecazioni a denti stretti per tutta quella pioggia che si insinua veloce in tutti gli anfratti in cui trova spazio.
C'è il mettersi in moto frenetico della caldaia.
"Ma l'uni domani è chiusa?"
Ci sono due strade che corrono parallele, rotaie sempre più veloci e niente rifornimento. 
Ci sono microfoni in mano e una canzone dei Blink quasi urlata che non importa, non importa se le parole in fondo si mischiano in un "uatsmaieigegein".
Ci sono risate nuove, di quelle che mostrano i denti. 
C'è del pesce crudo mangiato ingozzandosi. 
C'è che Genova è una donnaccia con cui sto uscendo spesso. 
C'è un autobus in salita e un polipo grassoccio. 
C'è fermento, c'è fermentazione (di vino).
C'è il "tin" ripetuto dei bicchieri che si scontrano prima con eleganza e poi con entusiasmo. 
C'è tanto rosso, da un maglione al Dolcetto.
C'è tanto rosso, dal rossetto al sugo di cinghiale.
"E gli smorzapreti?"
C'è un divano patchwork e l'odore di fumo.
Ci sono poesie tatuate sui muri.
Ci sono macchie viola.
Ci sono racconti vecchi per orecchie nuove, storie nuove per orecchie abitudinarie. 
C'è un kebab freddo e piccante, c'è del casino e all'improvviso il silenzio. 
C'è che Genova t'abbraccia quando sembra averti dato le spalle e messo il broncio. 
C'è un libro, c'è un righello che sottolinea parole che qualcuno sembra averti strappato dalla mente. 
C'è che in fondo si ribolle. 
C'è un sonno che stordisce.
C'è un sonno che unisce. 
C'è un sonno che cura. 
C'è uno yo-yo di legno, c'è una cartella colorata per la scuola. 
C'è che la mia infanzia è la tua. 
C'è una camomilla, una bacinella, le imprecazioni, il libro, il righello, Genova che ringhia, Genova che tanto non piange. 
C'è che da Genova c'è da imparare. 


domenica 19 ottobre 2014

Sterco e cielo


La pigiata di acceleratore degli autobus che arrancano nell'ultimo tratto della via.
Qualche cane che abbaia, una palla che rimbalza lontana e di cui mi arriva l'eco rimbombato dai palazzi.
Due voci maschili discutono animatamente e poi ridono. 
La vita al di fuori del mio abbaino dalle tende azzurre scorre veloce anche dopo l'orario di chiusura. 
Genova non dorme. 
Genova bofonchia, ha il sonno irrequieto, in questo si va di pari passo. 
Genova dormicchia, ma ogni suo capillare ha vita propria. 
Genova puzza di piscio.
Genova puzza di vino. 
Genova puzza di vita e ne è così intrisa da colpirti in pieno petto. 
Genova odora di notti e giorni che si mescolano e si fondono senza trovare un confine. 
Genova parla con i muri.
Genova ti chiama con l'incanto di una libreria che riapre. 
Genova ti schiaffeggia con un asettico tacco di plexiglas. 
Genova ti seduce con due seni strabordanti e pesanti strati di rossetto viola.
Genova ti coccola con una birra tra gli scalini di una chiesa.
Genova ti chiede venti centesimi in vico San Luca e te li restituisce in un paio di occhiali neri spessi e vintage.
Genova ti serve una brioche calda in un bar mentre sei in coda per il cesso.
Genova ti vomita in faccia tutto quello che non vuoi vedere.
"Scopri quello di cui hai più paura e vacci a vivere"
Genova ti spiega senza parole come De André abbia scritto il testo di Via del Campo.
Genova ti fa vedere tutto in unico scatto.
Prendi o lasci.
Prendi lo sterco insieme al cielo in un'unica manata.
Marrone e azzurro stanno così bene insieme.


domenica 12 ottobre 2014

Il fango sa sorridere


Da venerdì mattina nell'aria di Genova si respira quell'odore surreale di paura mista a fiato sospeso, di quiete ad occhi bassi, di asfalto bagnato e umido. Chi cammina lo fa più velocemente, chi fuma una sigaretta sull'uscio del proprio negozio lo fa nervosamente, chi fa la spesa e arranca su per via Balbi con le buste controlla spesso il cielo e gli ammassi di nuvole che si muovono veloci.
Questo nella metà di città lato ponente, quella che, anche sotto un cielo quasi beige e allucinato, accoglie branchi di turisti giapponesi e li guida verso i musei di Strada Nuova e Palazzo Reale, serve aperitivi in una piazza delle Erbe sì umida ma vibrante di chiacchiere, tentando di dare una parvenza di normalità ad un finesettimana che di normale ha solo l'andare e venire ciclico della notte.
L'altra metà della città, quella delimitata da via XX Settembre tagliata più o meno nel mezzo, ha tutto un altro odore. Ha l'odore del terrore, del sudore, di quella disperazione a cui però non la si può dare vinta. Ha l'odore di un sorriso incastrato a forza sui volti, quelli di chi in via Canevari, in via Archimede, a Borgo Incrociati ci vive e ci lavora, aveva macchina e motorino.
Perché quello che non mancava su nessuna faccia, questa mattina mentre si spalava, era un sorriso che combatteva, attimo per attimo, con tutta la forza dei muscoli e dei tendini, contro la voglia di sedersi a terra, tra il fango e la merda, tra i vetri e i rami, per piangere rivivendo un film già girato tre anni fa. Perché di film si tratta. Il copione sempre lo stesso, è cambiato solo qualche ordine delle scene. Gli attori sempre uguali, la pioggia grande protagonista da tappeto rosso, le allerte mere comparse, i cittadini le vittime di un giallo che non trova colpevole. Le macchine da presa presenti, oggi, a testimoniare una vicenda già successa, a far vedere al mondo magliette sudate e capelli appiccicati sulla fronte, a chiamare centinaia di persone Angeli del Fango per dimostrare all'umanità che ancora un po' di umanità, appunto, è rimasta, da qualche parte, in qualche momento.

Questa mattina un pallido sole ha deciso di illuminare meglio quell'enorme ferita che Genova pensava e sperava di aver rimarginato, come per lasciare piena visuale alla fiumana di chirurghi che sin dalle prime ore di luce cercavano di curarla.
Chirurghi come chi, con le mani impastate di guanti e fango, ha spostato con pale, palette, vanghe, scope, rastrelli, tutta la melma e i detriti accumulati all'entrata del tunnel di Borgo degli Incrociati, quello che collega Brignole al Borgo.

Chirurghi come chi, a via libera da fango e pezzi di legno, ha fatto la spola tra via Canevari e la bocca del tunnel, tirando fuori una ad una le auto ammassate in quel lungo e buio tubo digerente, che le ha masticate, ruminate, spolpate e le ha lasciate lì nel proprio stomaco. Una lavanda gastrica fatta di gomme che scivolano sull'asfalto limaccioso e portiere spappolate.
Chirurghi come chi, nelle budella del borgo, ha aiutato i padroni delle osterie, dei bar, delle cartolerie, dei negozi di antichità a sventrare le proprie attività, a far vomitare ai loro locali poltrone dell'ottocento intrise d'acqua, risme di quaderni macerate, cornici divelte e vetri rotti.
Chirurghi come chi, con una carriola massiccia, trasportava secchi stracolmi di fango marrone sino all'imponente container sistemato all'entrata della via, in attesa che un camion lo portasse, strapieno, nel più vicino centro di raccolta.
Chirurghi come chi, con sacchi di carta fumante, ha distribuito focaccia calda e olandesine alla crema, bottiglie d'acqua e sorrisi di cortesia. Persone di cui non saprò mai il nome, persone che nemmeno volevano un grazie. Persone di cui forse non ricorderò il volto, ma di certo terrò tatuato nella memoria il sorriso stremato.
Chirurghi come noi, questa mattina, tra chi fa il caffè al primo piano del Borgo e lo porta giù in bicchieri di plastica e chi con due mani prende la maniglia di un secchio pieno e non deve nemmeno alzare la testa per chiedere aiuto ad alzarlo perché altre due mani, conosciute o non, sono già sull'altra maniglia. 
Chirurghi come chi questa mattina si è infilato gli stivali di gomma senza pensare. Non per dovere, non per coscienza, non per beneficenza. Ma perché è nella natura umana farlo. 
E se raccontarlo è sinonimo di esibizionismo allora sì, questa volta esibisco.
Esibisco l'esperienza di pazzesca umanità che ho vissuto questa mattina.
La gioia di vivere in mezzo al fango no, non pensavo di trovarla. Eppure. 


martedì 23 settembre 2014

Tutto sul tetto


C'è una cosa, in particolare, che amo delle città. Oltre ai volti, le strade, le piazze, l'atmosfera, le facciate. Quello che mi fa innamorare di una città sono i tetti. Spesso dimenticati, bistrattati, ricevono uno sguardo distratto mentre si cerca di capire se quei due nuvoloni neri porteranno pioggia o no. Invece io alzo subito il naso al cielo e cerco di scorgere tutto quello che sta sopra. Terrazze nascoste in misere e grigie alternanze di palazzotti semi nuovi, tetti di tegole, alcuni con le travi a vista, grigi, rossi, dritti, sghimbesci, in un mosaico di colori, forme e bellezze che dà ad ogni città un profilo unico. Ho amato quelli squadrati, di cemento e acciaio, nudi di Downtown Manhattan, quelli di tegole, spesso di legno, delle perliferie di Albany, quelli dalle mille tonalità di grigio fumo e quegli abbaini dalle forme perfette di Parigi, quelli multiformi e seriosi di Milano, e oggi ho amato quelli inconfondibili di Genova. Musica, nessuna cartina, un passo dopo l'altro nell'incredibile umanità che si incontra nelle budella più crude della città. Un occhio sui vicoli, un occhio alla striscia di cielo che si vedeva in cima per scorgere uno scorcio, un filo di tetto, vedere cosa c'è al di là. Ancora più su. Così ad ogni piazza, ogni slargo, ogni salita, la soddisfazione di scorgere una terrazza minuscola, incastonata tra quattro palazzine di altezze diverse, con qualche pianta un dondolo e i rampicanti che si sono impossessati della ringhiera. Che gioia i tetti, questa volta allineati come tanti soldatini sull'attenti, che si vedono dando le spalle a palazzo Ducale, in piazza Matteotti. Vere e proprie foreste coltivate dalla terrazza di un attico, tende a righe, antenne di qualche televisione che chissà chi starà guardando. C'è così tanta vita tra i tetti di Genova. E immaginarla dà un senso di energia, di essere parte di qualcosa, di un'umanità che sotto quei tetti pulsa e freme. 

martedì 26 agosto 2014

Punto (e virgola) e a capo


Sono così maledettamente incostante.
Sarà che scrivere di gioie e traguardi suona così zuccherosamente finto, esagerato e autocelebrativo che non mi viene naturale farlo, sarà che scrivere aiuta la mia fragile autostima a sfogarsi, ma mi ritrovo ad entrare nelle pagine di questo blog nei momenti che più mi scuotono nel profondo, quelli esilaranti e allo stesso tempo spaventosi che anticipano un cambiamento.
Per la quarta volta in cinque anni sono pronta a impacchettare la mia vita e smuoverla un po', agitare le acque per vedere cosa si trova sotto la superficie e dare nuovi stimoli al mio animo inquieto.
Per la quarta volta in cinque anni sono effettivamente e inesorabilmente terrorizzata e iperattiva allo stesso tempo. Pianifico, come al solito, i minimi dettagli di un futuro che già ho costruito nei meandri della mia testa, accavallo aspettative e realtà rischiando, due volte su tre, la delusione, analizzo the worst case scenario ancora prima che questo possa anche solo figurare come un'ombra nel mio destino. Sarà che manipolo troppo la mia vita, la plasmo a mia immagine e somiglianza così tante volte nella teoria che ormai quando arriva alla pratica è già sgualcita, di seconda mano, senza freschezza.
La mia furiosa impazienza mi ha sempre portata a questo. Eppure cerco, disperatamente, di evitarlo.
E allora sono qui, sul ciglio di quella che sta per delinearsi come una nuova avventura, uno slancio verso qualcosa di nuovo e sconosciuto, l'ennesimo trasloco, le ennesime mura di una stanza che piano piano prenderà il mio odore, attutirà i miei suoni e custodirà, per qualche tempo, i miei sonni irrequieti. Un punto fermo che sa essere lì, pronto a sorreggere in caso di dondolio troppo pericolante, ma che non va a sostituire i miei arti.
Come al solito varco a passo incerto le porte di ogni nuova esperienza, mai sicura delle mie decisioni, con un vagone di "se" e "ma" perennemente ancorato alle mie spalle, ma, ancora una volta, c'è un qualcosa che mi smuove, nel profondo, mi spinge, mi regala quel tipo di sconsideratezza che scaturisce solo da un animo sicuro.
Basta solo fare un respiro profondo e ricordarsi di mettere un piede davanti all'altro.

E' Natale e io corro

-L'adorabile foto è di Gail Albert Halaban-

Al liceo studiando Bergson ho sempre trovato geniale la divisione tra tempo esteriore e tempo interiore, lui e la sua precisione così francese a spiegarci con estrema razionalità e filosofia che il tempo scandito dalle lancette dell'orologio è ben diverso da quello percepito da ogni individuo. 


D'accordissimo. 

Al tempo però fissavo solo con impazienza il display del mio telefonino pregando che passasse in fretta l'ora di chimica perché non capivo una mazza. 


Tutto qui. 

Crescendo ho pensato come Bergson non abbia mai parlato, però, di tutto quel tempo vissuto alla rinfusa, senza che passi lentamente né velocemente, nel quale si viene sballottati qua e là tipo la giostra delle tazze a Disneyland, peraltro con la stessa sensazione di vomito imminente. 
Quel tempo in cui in un attimo ti ritrovi da una città ad un'altra senza ricordare il sedile del treno che hai appena preso, perché eri troppo occupata a ripassare per quell'esame che hai tra due gior no, in realtà hai passato metà del tempo a sbirciare nelle case altrui, quelle affacciate sulla ferrovia, sempre le stesse in cui sbirci ad ogni viaggio, una volta con le tende scostate e la luce gialla del lampadario alla sera, all'ora di cena, e una volta con la signora in grembiule che spazza il poggiolo. 



Bergson non ha mai parlato del tempo che passa veloce non perché sia necessariamente un bel momento, ma perché il cervello non riesce a soffermarsi, a capirlo, a gustarlo. 

Il cervello diciamo che non riesce punto. 
E allora la vita scorre un po' così, in quella non-beatitudine di chi non capisce, di chi non afferra quell'unico particolare che potrebbe far capire tutto. (The story of our lives, insomma) 
Scorre che ieri ero in una farmacia corsa a blaterare qualcosa in francese per avere una pomata contro le punture di medusa e domani è Natale, un semestre di università è passato e torno a dare esami come se nell'ultimo anno e mezzo non avessi fatto altro e invece ho fatto tutt'altro, e nei ritagli di tempo bazzico per negozi scintillanti e orrendamente addobbati cercando regali, tra le facce perplesse e spaesate degli uomini e quelle rapaci e pronte ad accaparrarsi l'ultima occasione delle donne. 
Menomale che esistono, gli uomini sotto Natale. 

Quasi tremano nelle Feltrinelli, da Zara, da Tiger, nascondendosi tra gli scaffali come i cani durante un temporale, con quell'occhio piegato all'ingiù dei bassethound e le mani intrecciate dietro la schiena, a volte con qualche sacchetto rosso e oro in mano, chiedendosi cosa diamine si cucinerà il quel fornetto del reparto smalti, forse un toast formato mignon, quanti brillantini debba avere un'agenda per piacere alla fidanzata o di che colore debbano essere i cuori del plaid di pile per la madre. 
Un po' tristi un po' con il mio sguardo del liceo nell'ora di chimica, con quella tipica espressione da "speriamo passi presto".
Menomale che esistono perché sono solidale con loro.
Ma per poco.
Perché sono già sulla cyclette a sudare via la focaccia del pomeriggio. 
E' Natale e io corro. 

La mia violenza.


Era il 25 novembre, è stato il 25 novembre. 
Un 2 e un 5 pieni sino all'orlo di parole forti, eleganti, determinate. 
Niente violenza. 
Niente violenza sulle donne. 

Consapevolezza. Forza di reagire.

E già è parecchio inquietante che ci sia il bisogno di ricordarsi, un giorno all'anno, che legnare le donne, ma soprattutto chiunque, non è carino. È un po' peggio di dimenticarsi l'anniversario.
Ma il risvolto che più fa rabbrividire, quello che scivola tra le pieghe dei luoghi comuni e dei volti di donna con l'occhio nero spalmati su tutti i muri, quello che si nasconde dietro le campagne mediatiche sui social, adorabili con i propri hashtag, anni luce prima dei convegni con gli psicologi e gli assistenti sociali, è quello degli altri 364 giorni.
Quelli della vita quotidiana, quelli prima di una relazione, quelli prima di.
La mia violenza, ma anche la tua, la sua, quella della mia farmacista, è così banale e perfettamente mascherata che non ha le forme della violenza. 

Non lascia lividi, non spinge giù dalle scale, non telefona di notte a tutte le ore minacciandomi. 

Non ha le sembianze del femminicidio, che se word me lo dà errore un diamine di motivo ci sarà.

Ma lascia l'amaro in bocca quando in treno il signore di mezza età, seduto di fronte a me, con la ventiquattrore di pelle e il cellulare in mano lo alza con nonchalance, altezza volto, e finge di concentrarsi su un messaggio. Finché non si sente distintamente un click tipico della fotografia.
Lascia l'amaro in bocca quando i consigli della sessuologa sbandierati sulle riviste sostengono che per mantenere alta la libido di coppia siano le nostre, di chiappe, a dover essere stringate e circondate da fili di lustrini, anche a gennaio, e le nostre, di gambe, perfettamente depilate, e le nostre, di sopracciglia, che non prendano possesso dell'intera faccia come quella della -pur meravigliosa- adorabile Frida Kahlo.
Lascia l'amaro in bocca quando le calze nere e il tacco che indosso con -ben poca- disinvoltura per una cena elegante sembrano essere il corrispondente segnico di un cartello con scritto "la calza nera l'ho messa per te, buon uomo che mi fissi sul pullman".
Lascia l'amaro in bocca quando nel tuo lavoro e in una presentazione "come sei carina sul palco" mentre i tuoi colleghi "come sono professionali".

Lascia l'amaro in bocca quando si pensa che l'umanità intera, uomini e donne, dovrebbe ragionare a fondo sul fatto di questa mania di catalogare il sesso femminile quello "debole". E soprattutto decidere se lo sia sempre, in ogni circostanza, o solo quando fa comodo (agli uni e agli altri).

E' sesso debole solo quando ci si fa offrire l'aperitivo o si entra gratis nei locali ma è sesso forte quando si chiede la parità sul lavoro. E al contrario è parità dei sessi quando la valigia me la devo camallare per sei rampe di scale in stazione Principe senza che un buon samaritano muscoloso mi presti le sue braccia, ma non lo è quando invece guido, che, in quanto donna, direziono il mio automezzo ad canis cazzum. Lascia l'amaro in bocca quando sembra che la parola sindaca, assessora e avvocatessa siano la priorità nel mondo lavorativo, culturale e sociale dei paesi avanzati.

Quando basterebbe molto meno.

Momento. Momento.


C'è qualcosa che non quadra, l'orologio che perde un giro di lancette, la giornata che salta due o tre ore. Il tempo scivola via tra le mani manco fosse la sabbia fine di Palombaggia.
Manca una nota, un battito, un diamine di ritmo. Tutto sincopato e gira intorno.
In tondo.
E la palestra? E due passi di danza, così, en passant, in settimana?
E no non c'è tempo. E spiegalo a quel morbido strato di cellulite che mi avvolge le cosce con dolcezza, lento e subdolo, che non c'è tempo per la zumba delle 19.
E una qualsiasi attività fisica che non sia andare avanti e indietro per il mio corridoio lungo come quelli dell'albergo di Shining.
E "ma da Decathlon la cyclette base costa 89 euro".
"La faccio la mattina prima di controllare le mail e andare a lezione".
"No dai, la biblioteca al terzo piano a piedi no".
E il regionale Genova-Savona, e porcaccia le lenti a contatto sono a Genova e io sono a Savona.
E le camminate a passo spedito per vico San Luca, la mia arteria conosciuta. E prendere un vicolo a destra, ma che pittoresco, e cambia universo, lingua e paesaggio. 
E giri in tondo senza meta, gli occhi che scrutano ogni volto, ogni taglio di altri occhi, ogni accento. In silenzio.
E inerpicati su per la salita di piazza Sarzano. E il mare e le nuvole tra le gru. E respirare. E la sopraelevata lì sotto, lingua grigia interminabile.
"Ma da quando nei kebab ci sono le patatine fritte? Dai però, non le volevo"
Poco importa se la salsa piccante mi cola tutta giù per il mento e plana sul selciato con un secco splat,  ci si asciuga la bocca col dito e intanto si spazzano via dalla faccia le paranoie.
E salta il tempo, rallenta, inchioda, riparte, frena e poi di nuovo.
E tempo di chiudere gli occhi che il dado è tratto, show must go on, ma anche no, al diavolo la coerenza.
E pretendere di essere capita quando nemmeno si ha un filo del discorso.
E pretendere di essere.
E pretendere.
E non c'è bisogno di chiedere scusa.
E la calma di un lunedì sera.
Momento. Momento.


Così impari


C'è il vento, la notte buia e tempestosa. Du gocce. La trama da romanzo c'è.
C'è il silenzio di stanze vuote.
Ci sono le imprecazioni a denti stretti per tutta quella pioggia che si insinua veloce in tutti gli anfratti in cui trova spazio.
C'è il mettersi in moto frenetico della caldaia.
"Ma l'uni domani è chiusa?"
Ci sono due strade che corrono parallele, rotaie sempre più veloci e niente rifornimento. 
Ci sono microfoni in mano e una canzone dei Blink quasi urlata che non importa, non importa se le parole in fondo si mischiano in un "uatsmaieigegein".
Ci sono risate nuove, di quelle che mostrano i denti. 
C'è del pesce crudo mangiato ingozzandosi. 
C'è che Genova è una donnaccia con cui sto uscendo spesso. 
C'è un autobus in salita e un polipo grassoccio. 
C'è fermento, c'è fermentazione (di vino).
C'è il "tin" ripetuto dei bicchieri che si scontrano prima con eleganza e poi con entusiasmo. 
C'è tanto rosso, da un maglione al Dolcetto.
C'è tanto rosso, dal rossetto al sugo di cinghiale.
"E gli smorzapreti?"
C'è un divano patchwork e l'odore di fumo.
Ci sono poesie tatuate sui muri.
Ci sono macchie viola.
Ci sono racconti vecchi per orecchie nuove, storie nuove per orecchie abitudinarie. 
C'è un kebab freddo e piccante, c'è del casino e all'improvviso il silenzio. 
C'è che Genova t'abbraccia quando sembra averti dato le spalle e messo il broncio. 
C'è un libro, c'è un righello che sottolinea parole che qualcuno sembra averti strappato dalla mente. 
C'è che in fondo si ribolle. 
C'è un sonno che stordisce.
C'è un sonno che unisce. 
C'è un sonno che cura. 
C'è uno yo-yo di legno, c'è una cartella colorata per la scuola. 
C'è che la mia infanzia è la tua. 
C'è una camomilla, una bacinella, le imprecazioni, il libro, il righello, Genova che ringhia, Genova che tanto non piange. 
C'è che da Genova c'è da imparare. 


Sterco e cielo


La pigiata di acceleratore degli autobus che arrancano nell'ultimo tratto della via.
Qualche cane che abbaia, una palla che rimbalza lontana e di cui mi arriva l'eco rimbombato dai palazzi.
Due voci maschili discutono animatamente e poi ridono. 
La vita al di fuori del mio abbaino dalle tende azzurre scorre veloce anche dopo l'orario di chiusura. 
Genova non dorme. 
Genova bofonchia, ha il sonno irrequieto, in questo si va di pari passo. 
Genova dormicchia, ma ogni suo capillare ha vita propria. 
Genova puzza di piscio.
Genova puzza di vino. 
Genova puzza di vita e ne è così intrisa da colpirti in pieno petto. 
Genova odora di notti e giorni che si mescolano e si fondono senza trovare un confine. 
Genova parla con i muri.
Genova ti chiama con l'incanto di una libreria che riapre. 
Genova ti schiaffeggia con un asettico tacco di plexiglas. 
Genova ti seduce con due seni strabordanti e pesanti strati di rossetto viola.
Genova ti coccola con una birra tra gli scalini di una chiesa.
Genova ti chiede venti centesimi in vico San Luca e te li restituisce in un paio di occhiali neri spessi e vintage.
Genova ti serve una brioche calda in un bar mentre sei in coda per il cesso.
Genova ti vomita in faccia tutto quello che non vuoi vedere.
"Scopri quello di cui hai più paura e vacci a vivere"
Genova ti spiega senza parole come De André abbia scritto il testo di Via del Campo.
Genova ti fa vedere tutto in unico scatto.
Prendi o lasci.
Prendi lo sterco insieme al cielo in un'unica manata.
Marrone e azzurro stanno così bene insieme.


Il fango sa sorridere


Da venerdì mattina nell'aria di Genova si respira quell'odore surreale di paura mista a fiato sospeso, di quiete ad occhi bassi, di asfalto bagnato e umido. Chi cammina lo fa più velocemente, chi fuma una sigaretta sull'uscio del proprio negozio lo fa nervosamente, chi fa la spesa e arranca su per via Balbi con le buste controlla spesso il cielo e gli ammassi di nuvole che si muovono veloci.
Questo nella metà di città lato ponente, quella che, anche sotto un cielo quasi beige e allucinato, accoglie branchi di turisti giapponesi e li guida verso i musei di Strada Nuova e Palazzo Reale, serve aperitivi in una piazza delle Erbe sì umida ma vibrante di chiacchiere, tentando di dare una parvenza di normalità ad un finesettimana che di normale ha solo l'andare e venire ciclico della notte.
L'altra metà della città, quella delimitata da via XX Settembre tagliata più o meno nel mezzo, ha tutto un altro odore. Ha l'odore del terrore, del sudore, di quella disperazione a cui però non la si può dare vinta. Ha l'odore di un sorriso incastrato a forza sui volti, quelli di chi in via Canevari, in via Archimede, a Borgo Incrociati ci vive e ci lavora, aveva macchina e motorino.
Perché quello che non mancava su nessuna faccia, questa mattina mentre si spalava, era un sorriso che combatteva, attimo per attimo, con tutta la forza dei muscoli e dei tendini, contro la voglia di sedersi a terra, tra il fango e la merda, tra i vetri e i rami, per piangere rivivendo un film già girato tre anni fa. Perché di film si tratta. Il copione sempre lo stesso, è cambiato solo qualche ordine delle scene. Gli attori sempre uguali, la pioggia grande protagonista da tappeto rosso, le allerte mere comparse, i cittadini le vittime di un giallo che non trova colpevole. Le macchine da presa presenti, oggi, a testimoniare una vicenda già successa, a far vedere al mondo magliette sudate e capelli appiccicati sulla fronte, a chiamare centinaia di persone Angeli del Fango per dimostrare all'umanità che ancora un po' di umanità, appunto, è rimasta, da qualche parte, in qualche momento.

Questa mattina un pallido sole ha deciso di illuminare meglio quell'enorme ferita che Genova pensava e sperava di aver rimarginato, come per lasciare piena visuale alla fiumana di chirurghi che sin dalle prime ore di luce cercavano di curarla.
Chirurghi come chi, con le mani impastate di guanti e fango, ha spostato con pale, palette, vanghe, scope, rastrelli, tutta la melma e i detriti accumulati all'entrata del tunnel di Borgo degli Incrociati, quello che collega Brignole al Borgo.

Chirurghi come chi, a via libera da fango e pezzi di legno, ha fatto la spola tra via Canevari e la bocca del tunnel, tirando fuori una ad una le auto ammassate in quel lungo e buio tubo digerente, che le ha masticate, ruminate, spolpate e le ha lasciate lì nel proprio stomaco. Una lavanda gastrica fatta di gomme che scivolano sull'asfalto limaccioso e portiere spappolate.
Chirurghi come chi, nelle budella del borgo, ha aiutato i padroni delle osterie, dei bar, delle cartolerie, dei negozi di antichità a sventrare le proprie attività, a far vomitare ai loro locali poltrone dell'ottocento intrise d'acqua, risme di quaderni macerate, cornici divelte e vetri rotti.
Chirurghi come chi, con una carriola massiccia, trasportava secchi stracolmi di fango marrone sino all'imponente container sistemato all'entrata della via, in attesa che un camion lo portasse, strapieno, nel più vicino centro di raccolta.
Chirurghi come chi, con sacchi di carta fumante, ha distribuito focaccia calda e olandesine alla crema, bottiglie d'acqua e sorrisi di cortesia. Persone di cui non saprò mai il nome, persone che nemmeno volevano un grazie. Persone di cui forse non ricorderò il volto, ma di certo terrò tatuato nella memoria il sorriso stremato.
Chirurghi come noi, questa mattina, tra chi fa il caffè al primo piano del Borgo e lo porta giù in bicchieri di plastica e chi con due mani prende la maniglia di un secchio pieno e non deve nemmeno alzare la testa per chiedere aiuto ad alzarlo perché altre due mani, conosciute o non, sono già sull'altra maniglia. 
Chirurghi come chi questa mattina si è infilato gli stivali di gomma senza pensare. Non per dovere, non per coscienza, non per beneficenza. Ma perché è nella natura umana farlo. 
E se raccontarlo è sinonimo di esibizionismo allora sì, questa volta esibisco.
Esibisco l'esperienza di pazzesca umanità che ho vissuto questa mattina.
La gioia di vivere in mezzo al fango no, non pensavo di trovarla. Eppure. 


Tutto sul tetto


C'è una cosa, in particolare, che amo delle città. Oltre ai volti, le strade, le piazze, l'atmosfera, le facciate. Quello che mi fa innamorare di una città sono i tetti. Spesso dimenticati, bistrattati, ricevono uno sguardo distratto mentre si cerca di capire se quei due nuvoloni neri porteranno pioggia o no. Invece io alzo subito il naso al cielo e cerco di scorgere tutto quello che sta sopra. Terrazze nascoste in misere e grigie alternanze di palazzotti semi nuovi, tetti di tegole, alcuni con le travi a vista, grigi, rossi, dritti, sghimbesci, in un mosaico di colori, forme e bellezze che dà ad ogni città un profilo unico. Ho amato quelli squadrati, di cemento e acciaio, nudi di Downtown Manhattan, quelli di tegole, spesso di legno, delle perliferie di Albany, quelli dalle mille tonalità di grigio fumo e quegli abbaini dalle forme perfette di Parigi, quelli multiformi e seriosi di Milano, e oggi ho amato quelli inconfondibili di Genova. Musica, nessuna cartina, un passo dopo l'altro nell'incredibile umanità che si incontra nelle budella più crude della città. Un occhio sui vicoli, un occhio alla striscia di cielo che si vedeva in cima per scorgere uno scorcio, un filo di tetto, vedere cosa c'è al di là. Ancora più su. Così ad ogni piazza, ogni slargo, ogni salita, la soddisfazione di scorgere una terrazza minuscola, incastonata tra quattro palazzine di altezze diverse, con qualche pianta un dondolo e i rampicanti che si sono impossessati della ringhiera. Che gioia i tetti, questa volta allineati come tanti soldatini sull'attenti, che si vedono dando le spalle a palazzo Ducale, in piazza Matteotti. Vere e proprie foreste coltivate dalla terrazza di un attico, tende a righe, antenne di qualche televisione che chissà chi starà guardando. C'è così tanta vita tra i tetti di Genova. E immaginarla dà un senso di energia, di essere parte di qualcosa, di un'umanità che sotto quei tetti pulsa e freme. 

Punto (e virgola) e a capo


Sono così maledettamente incostante.
Sarà che scrivere di gioie e traguardi suona così zuccherosamente finto, esagerato e autocelebrativo che non mi viene naturale farlo, sarà che scrivere aiuta la mia fragile autostima a sfogarsi, ma mi ritrovo ad entrare nelle pagine di questo blog nei momenti che più mi scuotono nel profondo, quelli esilaranti e allo stesso tempo spaventosi che anticipano un cambiamento.
Per la quarta volta in cinque anni sono pronta a impacchettare la mia vita e smuoverla un po', agitare le acque per vedere cosa si trova sotto la superficie e dare nuovi stimoli al mio animo inquieto.
Per la quarta volta in cinque anni sono effettivamente e inesorabilmente terrorizzata e iperattiva allo stesso tempo. Pianifico, come al solito, i minimi dettagli di un futuro che già ho costruito nei meandri della mia testa, accavallo aspettative e realtà rischiando, due volte su tre, la delusione, analizzo the worst case scenario ancora prima che questo possa anche solo figurare come un'ombra nel mio destino. Sarà che manipolo troppo la mia vita, la plasmo a mia immagine e somiglianza così tante volte nella teoria che ormai quando arriva alla pratica è già sgualcita, di seconda mano, senza freschezza.
La mia furiosa impazienza mi ha sempre portata a questo. Eppure cerco, disperatamente, di evitarlo.
E allora sono qui, sul ciglio di quella che sta per delinearsi come una nuova avventura, uno slancio verso qualcosa di nuovo e sconosciuto, l'ennesimo trasloco, le ennesime mura di una stanza che piano piano prenderà il mio odore, attutirà i miei suoni e custodirà, per qualche tempo, i miei sonni irrequieti. Un punto fermo che sa essere lì, pronto a sorreggere in caso di dondolio troppo pericolante, ma che non va a sostituire i miei arti.
Come al solito varco a passo incerto le porte di ogni nuova esperienza, mai sicura delle mie decisioni, con un vagone di "se" e "ma" perennemente ancorato alle mie spalle, ma, ancora una volta, c'è un qualcosa che mi smuove, nel profondo, mi spinge, mi regala quel tipo di sconsideratezza che scaturisce solo da un animo sicuro.
Basta solo fare un respiro profondo e ricordarsi di mettere un piede davanti all'altro.