domenica 19 ottobre 2014

Sterco e cielo


La pigiata di acceleratore degli autobus che arrancano nell'ultimo tratto della via.
Qualche cane che abbaia, una palla che rimbalza lontana e di cui mi arriva l'eco rimbombato dai palazzi.
Due voci maschili discutono animatamente e poi ridono. 
La vita al di fuori del mio abbaino dalle tende azzurre scorre veloce anche dopo l'orario di chiusura. 
Genova non dorme. 
Genova bofonchia, ha il sonno irrequieto, in questo si va di pari passo. 
Genova dormicchia, ma ogni suo capillare ha vita propria. 
Genova puzza di piscio.
Genova puzza di vino. 
Genova puzza di vita e ne è così intrisa da colpirti in pieno petto. 
Genova odora di notti e giorni che si mescolano e si fondono senza trovare un confine. 
Genova parla con i muri.
Genova ti chiama con l'incanto di una libreria che riapre. 
Genova ti schiaffeggia con un asettico tacco di plexiglas. 
Genova ti seduce con due seni strabordanti e pesanti strati di rossetto viola.
Genova ti coccola con una birra tra gli scalini di una chiesa.
Genova ti chiede venti centesimi in vico San Luca e te li restituisce in un paio di occhiali neri spessi e vintage.
Genova ti serve una brioche calda in un bar mentre sei in coda per il cesso.
Genova ti vomita in faccia tutto quello che non vuoi vedere.
"Scopri quello di cui hai più paura e vacci a vivere"
Genova ti spiega senza parole come De André abbia scritto il testo di Via del Campo.
Genova ti fa vedere tutto in unico scatto.
Prendi o lasci.
Prendi lo sterco insieme al cielo in un'unica manata.
Marrone e azzurro stanno così bene insieme.


domenica 12 ottobre 2014

Il fango sa sorridere


Da venerdì mattina nell'aria di Genova si respira quell'odore surreale di paura mista a fiato sospeso, di quiete ad occhi bassi, di asfalto bagnato e umido. Chi cammina lo fa più velocemente, chi fuma una sigaretta sull'uscio del proprio negozio lo fa nervosamente, chi fa la spesa e arranca su per via Balbi con le buste controlla spesso il cielo e gli ammassi di nuvole che si muovono veloci.
Questo nella metà di città lato ponente, quella che, anche sotto un cielo quasi beige e allucinato, accoglie branchi di turisti giapponesi e li guida verso i musei di Strada Nuova e Palazzo Reale, serve aperitivi in una piazza delle Erbe sì umida ma vibrante di chiacchiere, tentando di dare una parvenza di normalità ad un finesettimana che di normale ha solo l'andare e venire ciclico della notte.
L'altra metà della città, quella delimitata da via XX Settembre tagliata più o meno nel mezzo, ha tutto un altro odore. Ha l'odore del terrore, del sudore, di quella disperazione a cui però non la si può dare vinta. Ha l'odore di un sorriso incastrato a forza sui volti, quelli di chi in via Canevari, in via Archimede, a Borgo Incrociati ci vive e ci lavora, aveva macchina e motorino.
Perché quello che non mancava su nessuna faccia, questa mattina mentre si spalava, era un sorriso che combatteva, attimo per attimo, con tutta la forza dei muscoli e dei tendini, contro la voglia di sedersi a terra, tra il fango e la merda, tra i vetri e i rami, per piangere rivivendo un film già girato tre anni fa. Perché di film si tratta. Il copione sempre lo stesso, è cambiato solo qualche ordine delle scene. Gli attori sempre uguali, la pioggia grande protagonista da tappeto rosso, le allerte mere comparse, i cittadini le vittime di un giallo che non trova colpevole. Le macchine da presa presenti, oggi, a testimoniare una vicenda già successa, a far vedere al mondo magliette sudate e capelli appiccicati sulla fronte, a chiamare centinaia di persone Angeli del Fango per dimostrare all'umanità che ancora un po' di umanità, appunto, è rimasta, da qualche parte, in qualche momento.

Questa mattina un pallido sole ha deciso di illuminare meglio quell'enorme ferita che Genova pensava e sperava di aver rimarginato, come per lasciare piena visuale alla fiumana di chirurghi che sin dalle prime ore di luce cercavano di curarla.
Chirurghi come chi, con le mani impastate di guanti e fango, ha spostato con pale, palette, vanghe, scope, rastrelli, tutta la melma e i detriti accumulati all'entrata del tunnel di Borgo degli Incrociati, quello che collega Brignole al Borgo.

Chirurghi come chi, a via libera da fango e pezzi di legno, ha fatto la spola tra via Canevari e la bocca del tunnel, tirando fuori una ad una le auto ammassate in quel lungo e buio tubo digerente, che le ha masticate, ruminate, spolpate e le ha lasciate lì nel proprio stomaco. Una lavanda gastrica fatta di gomme che scivolano sull'asfalto limaccioso e portiere spappolate.
Chirurghi come chi, nelle budella del borgo, ha aiutato i padroni delle osterie, dei bar, delle cartolerie, dei negozi di antichità a sventrare le proprie attività, a far vomitare ai loro locali poltrone dell'ottocento intrise d'acqua, risme di quaderni macerate, cornici divelte e vetri rotti.
Chirurghi come chi, con una carriola massiccia, trasportava secchi stracolmi di fango marrone sino all'imponente container sistemato all'entrata della via, in attesa che un camion lo portasse, strapieno, nel più vicino centro di raccolta.
Chirurghi come chi, con sacchi di carta fumante, ha distribuito focaccia calda e olandesine alla crema, bottiglie d'acqua e sorrisi di cortesia. Persone di cui non saprò mai il nome, persone che nemmeno volevano un grazie. Persone di cui forse non ricorderò il volto, ma di certo terrò tatuato nella memoria il sorriso stremato.
Chirurghi come noi, questa mattina, tra chi fa il caffè al primo piano del Borgo e lo porta giù in bicchieri di plastica e chi con due mani prende la maniglia di un secchio pieno e non deve nemmeno alzare la testa per chiedere aiuto ad alzarlo perché altre due mani, conosciute o non, sono già sull'altra maniglia. 
Chirurghi come chi questa mattina si è infilato gli stivali di gomma senza pensare. Non per dovere, non per coscienza, non per beneficenza. Ma perché è nella natura umana farlo. 
E se raccontarlo è sinonimo di esibizionismo allora sì, questa volta esibisco.
Esibisco l'esperienza di pazzesca umanità che ho vissuto questa mattina.
La gioia di vivere in mezzo al fango no, non pensavo di trovarla. Eppure. 


Sterco e cielo


La pigiata di acceleratore degli autobus che arrancano nell'ultimo tratto della via.
Qualche cane che abbaia, una palla che rimbalza lontana e di cui mi arriva l'eco rimbombato dai palazzi.
Due voci maschili discutono animatamente e poi ridono. 
La vita al di fuori del mio abbaino dalle tende azzurre scorre veloce anche dopo l'orario di chiusura. 
Genova non dorme. 
Genova bofonchia, ha il sonno irrequieto, in questo si va di pari passo. 
Genova dormicchia, ma ogni suo capillare ha vita propria. 
Genova puzza di piscio.
Genova puzza di vino. 
Genova puzza di vita e ne è così intrisa da colpirti in pieno petto. 
Genova odora di notti e giorni che si mescolano e si fondono senza trovare un confine. 
Genova parla con i muri.
Genova ti chiama con l'incanto di una libreria che riapre. 
Genova ti schiaffeggia con un asettico tacco di plexiglas. 
Genova ti seduce con due seni strabordanti e pesanti strati di rossetto viola.
Genova ti coccola con una birra tra gli scalini di una chiesa.
Genova ti chiede venti centesimi in vico San Luca e te li restituisce in un paio di occhiali neri spessi e vintage.
Genova ti serve una brioche calda in un bar mentre sei in coda per il cesso.
Genova ti vomita in faccia tutto quello che non vuoi vedere.
"Scopri quello di cui hai più paura e vacci a vivere"
Genova ti spiega senza parole come De André abbia scritto il testo di Via del Campo.
Genova ti fa vedere tutto in unico scatto.
Prendi o lasci.
Prendi lo sterco insieme al cielo in un'unica manata.
Marrone e azzurro stanno così bene insieme.


Il fango sa sorridere


Da venerdì mattina nell'aria di Genova si respira quell'odore surreale di paura mista a fiato sospeso, di quiete ad occhi bassi, di asfalto bagnato e umido. Chi cammina lo fa più velocemente, chi fuma una sigaretta sull'uscio del proprio negozio lo fa nervosamente, chi fa la spesa e arranca su per via Balbi con le buste controlla spesso il cielo e gli ammassi di nuvole che si muovono veloci.
Questo nella metà di città lato ponente, quella che, anche sotto un cielo quasi beige e allucinato, accoglie branchi di turisti giapponesi e li guida verso i musei di Strada Nuova e Palazzo Reale, serve aperitivi in una piazza delle Erbe sì umida ma vibrante di chiacchiere, tentando di dare una parvenza di normalità ad un finesettimana che di normale ha solo l'andare e venire ciclico della notte.
L'altra metà della città, quella delimitata da via XX Settembre tagliata più o meno nel mezzo, ha tutto un altro odore. Ha l'odore del terrore, del sudore, di quella disperazione a cui però non la si può dare vinta. Ha l'odore di un sorriso incastrato a forza sui volti, quelli di chi in via Canevari, in via Archimede, a Borgo Incrociati ci vive e ci lavora, aveva macchina e motorino.
Perché quello che non mancava su nessuna faccia, questa mattina mentre si spalava, era un sorriso che combatteva, attimo per attimo, con tutta la forza dei muscoli e dei tendini, contro la voglia di sedersi a terra, tra il fango e la merda, tra i vetri e i rami, per piangere rivivendo un film già girato tre anni fa. Perché di film si tratta. Il copione sempre lo stesso, è cambiato solo qualche ordine delle scene. Gli attori sempre uguali, la pioggia grande protagonista da tappeto rosso, le allerte mere comparse, i cittadini le vittime di un giallo che non trova colpevole. Le macchine da presa presenti, oggi, a testimoniare una vicenda già successa, a far vedere al mondo magliette sudate e capelli appiccicati sulla fronte, a chiamare centinaia di persone Angeli del Fango per dimostrare all'umanità che ancora un po' di umanità, appunto, è rimasta, da qualche parte, in qualche momento.

Questa mattina un pallido sole ha deciso di illuminare meglio quell'enorme ferita che Genova pensava e sperava di aver rimarginato, come per lasciare piena visuale alla fiumana di chirurghi che sin dalle prime ore di luce cercavano di curarla.
Chirurghi come chi, con le mani impastate di guanti e fango, ha spostato con pale, palette, vanghe, scope, rastrelli, tutta la melma e i detriti accumulati all'entrata del tunnel di Borgo degli Incrociati, quello che collega Brignole al Borgo.

Chirurghi come chi, a via libera da fango e pezzi di legno, ha fatto la spola tra via Canevari e la bocca del tunnel, tirando fuori una ad una le auto ammassate in quel lungo e buio tubo digerente, che le ha masticate, ruminate, spolpate e le ha lasciate lì nel proprio stomaco. Una lavanda gastrica fatta di gomme che scivolano sull'asfalto limaccioso e portiere spappolate.
Chirurghi come chi, nelle budella del borgo, ha aiutato i padroni delle osterie, dei bar, delle cartolerie, dei negozi di antichità a sventrare le proprie attività, a far vomitare ai loro locali poltrone dell'ottocento intrise d'acqua, risme di quaderni macerate, cornici divelte e vetri rotti.
Chirurghi come chi, con una carriola massiccia, trasportava secchi stracolmi di fango marrone sino all'imponente container sistemato all'entrata della via, in attesa che un camion lo portasse, strapieno, nel più vicino centro di raccolta.
Chirurghi come chi, con sacchi di carta fumante, ha distribuito focaccia calda e olandesine alla crema, bottiglie d'acqua e sorrisi di cortesia. Persone di cui non saprò mai il nome, persone che nemmeno volevano un grazie. Persone di cui forse non ricorderò il volto, ma di certo terrò tatuato nella memoria il sorriso stremato.
Chirurghi come noi, questa mattina, tra chi fa il caffè al primo piano del Borgo e lo porta giù in bicchieri di plastica e chi con due mani prende la maniglia di un secchio pieno e non deve nemmeno alzare la testa per chiedere aiuto ad alzarlo perché altre due mani, conosciute o non, sono già sull'altra maniglia. 
Chirurghi come chi questa mattina si è infilato gli stivali di gomma senza pensare. Non per dovere, non per coscienza, non per beneficenza. Ma perché è nella natura umana farlo. 
E se raccontarlo è sinonimo di esibizionismo allora sì, questa volta esibisco.
Esibisco l'esperienza di pazzesca umanità che ho vissuto questa mattina.
La gioia di vivere in mezzo al fango no, non pensavo di trovarla. Eppure.