sabato 8 agosto 2015

Quel che mi resta di Expo Milano - Cosa vedere e cosa no



Va bene, non avevo aspettative troppo alte su Expo Milano, anche prima di andare a visitarlo. 
Lo ammetto. 
I presupposti morali della Fiera a cui l'Italia si stava preparando da ben 7 anni non erano dei migliori, insieme alle indiscrezioni sui ritardi, le speculazioni, i progetti mai finiti. Insomma, nulla che mi confortasse. 
Ma criticare male e senza materiale per le mani non mi è mai piaciuto troppo, ed è così politically uncorrect, così ho deciso di andare. 
E poi si sa, tra amici è più facile. 
Tutte quelle vecchie storie di Expo comune, mezzo gaudio
E allora siam partiti. 
Contando anche che le opinioni degli amici sono totalmente discordanti, la mia sarà semplicemente una tra le tante.

Comunque. 
Lunedì 3 agosto, temperatura sopportabile, ore 10 davanti ai tornelli. Livello di coda: quasi nullo. Mi libero dei braccialetti e del cellulare per passare oltre il metal detector, tanto che per un attimo mi sembra d'essere a Malpensa, e si entra. 
Un rivolo d'acqua largo una manciata di metri delimita tutta l'area, rigorosamente cementificata, dell'enorme fiera (ciò che rimane dell'ambizioso progetto delle Vie d'Acqua, immagino, presente nei rendering iniziali, ridimensionato via via e infine eliminato) mentre si intravedono i primi padiglioni. 
Quello che salta immediatamente all'occhio, entrando all'Expo, è la quantità immensa di cemento utilizzata, alle volte alleggerita allo sguardo da qualche alberello piantato qua è là, qualche metro quadro di erba che ospita assolate aree pic-nic e il grande lago artificiale che ospita l'Albero della Vita. 

L'effetto è straniante: da un tema così nobile come "Nutrire il pianeta - energia per la vita" di tutto ci si sarebbe aspettati, tranne che una comoda distesa grigia e un albero in simil legno spoglio ed esageratamente grande. 
Insomma, sin da subito l'effetto è quello di una Disneyland per bambinoni cresciuti come noi. Il sentore da parco dei divertimenti è confermato dai vari carretti (in plastica, vetroresina, polistirolo?) sistemati lungo tutto il Decumano (la via principale che taglia a metà la fiera) che rappresentano antichi e ricchi banchi del mercato alimentare, dalla macelleria alle spezie. Il tutto rigorosamente plastificato.
Enormi tendoni ricoprono il Decumano per la propria lunghezza, segno della pietà dei progettisti verso le milionate di persone in pellegrinaggio estivo alla Fiera. 
Persone che sembrano non infastidirsi nell'ascoltare i perpetui annunci, in più lingue, sputati fuori dagli altoparlanti seminati in ogni dove, che ricordano quanto Expo sia meravigliosa. Ognuno preceduto dal tipico "dlin dlon" che si ascolta nei supermercati subito prima di "..un addetto al reparto ortofrutta è desiderato in cassa". 
Il supermercato delle ipocrisie è aperto sino a ottobre, venghino siori, venghino. 

L'effetto rintronati è assicurato. Dal caldo, dal rumore, dagli spettacoli assolutamente decontestualizzati che Expo ci propone a tempi alterni lungo il Decumano, dalle architetture stravaganti e seducenti. Va detto che tali architetture sono state riservate, ovviamente, ai paesi meritevoli. Gli altri sono stati raggruppati in modesti cluster, tutti identici, divisi per categorie: dal caffè al riso, dalle spezie alle isole. La maggior parte seminascosti nelle retrovie, ché qui la povertà non esiste e meglio se non la mettiamo troppo in mostra. 
In bella mostra invece ci sono, tra un paese e l'altro, le multinazionali italiane e straniere più in voga, dalla Moretti alla Lavazza, dalla Martini al McDonald's. Quest'ultimo incessantemente pieno, alla faccia della biodiversità. 
Le prelibatezze locali di ogni paese si possono gustare invece sul retro di ogni padiglione, a visita finita, aspettandosi una bella fetta di popolazioni locali addette alla preparazione.
Aspettativa disattesa, però, nella maggior parte dei casi. 
Al padiglione degli Stati Uniti, a servirci un bel Black Angus Burger è stato un ragazzo dall'orecchino al naso con l'accento di Gallarate. 
Bizzarrie culturali che, evidentemente, saltano poco all'occhio del visitatore distratto. 

Ma passiamo ai padiglioni. 
Immancabile la visita a Palazzo Italia, unico nel suo genere, bianco candido, a simboleggiare il vivaio o il nido, non ricordo, in cemento biodinamico. 
Col cemento biodinamico devo ammettere che a primo acchitto mi hanno zittita. Per poi farmi ritrovare la parola una volta dentro. Un'esposizione senza capo né coda, basata sul contrasto e quattro temi portanti: "la potenza del saper fare", "la potenza della bellezza", "la potenza del limite" e "la potenza del futuro". (Credo i titoli li abbia scelti Renzi)
Un'accozzaglia di cose, in cui il cibo e le tecniche di salvaguardia ambientale per il futuro praticamente non compaiono, di cui ricordo, nell'ordine: 21 personalità dell'agroalimentare italiane che raccontano, in un tempo infinito, le loro esperienze, proiettate su quattro statue di carton gesso (non saprei spiegarmi meglio di così), stanze totalmente rivestite di schermi che proiettano immagini delle Cinque Terre, di Capri, di Venezia, senza assolutamente alcuna spiegazione, stanze totalmente rivestite di specchi, una chaos room di due metri quadri a luci stroboscopiche, un filmato della cattedrale di Assisi che crolla, 21 schermi di 21 catastrofi italiane, un'Italia in miniatura con micro-colture semi-morenti delle varie regioni. Un elenco di "Regione Lombardia, Regione Piemonte..." che culmina con "Regione Siciliana". L'incongruenza linguistica che subito ci ricorda che siamo, appunto, in Italia. 
Un fil rouge misterioso e filosofico, della varietà ad canis cazzum, che non valorizza nulla di nostro al mondo. Che dire che sarebbe bastato poco. Un po' di colore, di forme, di sapore, un assaggino di oliva taggiasca, uno spruzzo sul naso di estratto di agrumi di Sicilia. 

Cinquanta minuti di coda e la delusione nel cuore.
Ma basta poco per riportare il morale a livelli accettabili: il padiglione di Israele, con le sue
colture verticali, ispira e invita ad entrare. 
Uno spettacolo digitale decisamente ben fatto ci racconta come Israele abbia fatto del proprio suolo, arido e inospitale, terreno fertile per infinite colture e sperimentazioni agricole d'avanguardia. 
Peccato che il tutto strida, però, con i complicati rapporti diplomatici con la Palestina, che tutt'oggi, dopo decenni, rimane martoriata da Israele. 
Volete per caso dirmi che i contesti sociali, culturali, economici e geopolitici mondiali non influiscono, negli sviluppi dei Paesi?
Volete dirmi che basta decontestualizzare il tutto, parlare solo dei bei cibi che vogliamo mostrare, per parlare di nutrimento del pianeta?
Evidentemente sì. 

Allora lasciatemi almeno mangiare una frittella di zenzero e cipolla nel padiglione del Nepal, tra i mormorii buddisti e le colonne in legno del tempio.
Che faccio finta d'essere altrove. 

Quel che mi resta di Expo Milano - Cosa vedere e cosa no



Va bene, non avevo aspettative troppo alte su Expo Milano, anche prima di andare a visitarlo. 
Lo ammetto. 
I presupposti morali della Fiera a cui l'Italia si stava preparando da ben 7 anni non erano dei migliori, insieme alle indiscrezioni sui ritardi, le speculazioni, i progetti mai finiti. Insomma, nulla che mi confortasse. 
Ma criticare male e senza materiale per le mani non mi è mai piaciuto troppo, ed è così politically uncorrect, così ho deciso di andare. 
E poi si sa, tra amici è più facile. 
Tutte quelle vecchie storie di Expo comune, mezzo gaudio
E allora siam partiti. 
Contando anche che le opinioni degli amici sono totalmente discordanti, la mia sarà semplicemente una tra le tante.

Comunque. 
Lunedì 3 agosto, temperatura sopportabile, ore 10 davanti ai tornelli. Livello di coda: quasi nullo. Mi libero dei braccialetti e del cellulare per passare oltre il metal detector, tanto che per un attimo mi sembra d'essere a Malpensa, e si entra. 
Un rivolo d'acqua largo una manciata di metri delimita tutta l'area, rigorosamente cementificata, dell'enorme fiera (ciò che rimane dell'ambizioso progetto delle Vie d'Acqua, immagino, presente nei rendering iniziali, ridimensionato via via e infine eliminato) mentre si intravedono i primi padiglioni. 
Quello che salta immediatamente all'occhio, entrando all'Expo, è la quantità immensa di cemento utilizzata, alle volte alleggerita allo sguardo da qualche alberello piantato qua è là, qualche metro quadro di erba che ospita assolate aree pic-nic e il grande lago artificiale che ospita l'Albero della Vita. 

L'effetto è straniante: da un tema così nobile come "Nutrire il pianeta - energia per la vita" di tutto ci si sarebbe aspettati, tranne che una comoda distesa grigia e un albero in simil legno spoglio ed esageratamente grande. 
Insomma, sin da subito l'effetto è quello di una Disneyland per bambinoni cresciuti come noi. Il sentore da parco dei divertimenti è confermato dai vari carretti (in plastica, vetroresina, polistirolo?) sistemati lungo tutto il Decumano (la via principale che taglia a metà la fiera) che rappresentano antichi e ricchi banchi del mercato alimentare, dalla macelleria alle spezie. Il tutto rigorosamente plastificato.
Enormi tendoni ricoprono il Decumano per la propria lunghezza, segno della pietà dei progettisti verso le milionate di persone in pellegrinaggio estivo alla Fiera. 
Persone che sembrano non infastidirsi nell'ascoltare i perpetui annunci, in più lingue, sputati fuori dagli altoparlanti seminati in ogni dove, che ricordano quanto Expo sia meravigliosa. Ognuno preceduto dal tipico "dlin dlon" che si ascolta nei supermercati subito prima di "..un addetto al reparto ortofrutta è desiderato in cassa". 
Il supermercato delle ipocrisie è aperto sino a ottobre, venghino siori, venghino. 

L'effetto rintronati è assicurato. Dal caldo, dal rumore, dagli spettacoli assolutamente decontestualizzati che Expo ci propone a tempi alterni lungo il Decumano, dalle architetture stravaganti e seducenti. Va detto che tali architetture sono state riservate, ovviamente, ai paesi meritevoli. Gli altri sono stati raggruppati in modesti cluster, tutti identici, divisi per categorie: dal caffè al riso, dalle spezie alle isole. La maggior parte seminascosti nelle retrovie, ché qui la povertà non esiste e meglio se non la mettiamo troppo in mostra. 
In bella mostra invece ci sono, tra un paese e l'altro, le multinazionali italiane e straniere più in voga, dalla Moretti alla Lavazza, dalla Martini al McDonald's. Quest'ultimo incessantemente pieno, alla faccia della biodiversità. 
Le prelibatezze locali di ogni paese si possono gustare invece sul retro di ogni padiglione, a visita finita, aspettandosi una bella fetta di popolazioni locali addette alla preparazione.
Aspettativa disattesa, però, nella maggior parte dei casi. 
Al padiglione degli Stati Uniti, a servirci un bel Black Angus Burger è stato un ragazzo dall'orecchino al naso con l'accento di Gallarate. 
Bizzarrie culturali che, evidentemente, saltano poco all'occhio del visitatore distratto. 

Ma passiamo ai padiglioni. 
Immancabile la visita a Palazzo Italia, unico nel suo genere, bianco candido, a simboleggiare il vivaio o il nido, non ricordo, in cemento biodinamico. 
Col cemento biodinamico devo ammettere che a primo acchitto mi hanno zittita. Per poi farmi ritrovare la parola una volta dentro. Un'esposizione senza capo né coda, basata sul contrasto e quattro temi portanti: "la potenza del saper fare", "la potenza della bellezza", "la potenza del limite" e "la potenza del futuro". (Credo i titoli li abbia scelti Renzi)
Un'accozzaglia di cose, in cui il cibo e le tecniche di salvaguardia ambientale per il futuro praticamente non compaiono, di cui ricordo, nell'ordine: 21 personalità dell'agroalimentare italiane che raccontano, in un tempo infinito, le loro esperienze, proiettate su quattro statue di carton gesso (non saprei spiegarmi meglio di così), stanze totalmente rivestite di schermi che proiettano immagini delle Cinque Terre, di Capri, di Venezia, senza assolutamente alcuna spiegazione, stanze totalmente rivestite di specchi, una chaos room di due metri quadri a luci stroboscopiche, un filmato della cattedrale di Assisi che crolla, 21 schermi di 21 catastrofi italiane, un'Italia in miniatura con micro-colture semi-morenti delle varie regioni. Un elenco di "Regione Lombardia, Regione Piemonte..." che culmina con "Regione Siciliana". L'incongruenza linguistica che subito ci ricorda che siamo, appunto, in Italia. 
Un fil rouge misterioso e filosofico, della varietà ad canis cazzum, che non valorizza nulla di nostro al mondo. Che dire che sarebbe bastato poco. Un po' di colore, di forme, di sapore, un assaggino di oliva taggiasca, uno spruzzo sul naso di estratto di agrumi di Sicilia. 

Cinquanta minuti di coda e la delusione nel cuore.
Ma basta poco per riportare il morale a livelli accettabili: il padiglione di Israele, con le sue
colture verticali, ispira e invita ad entrare. 
Uno spettacolo digitale decisamente ben fatto ci racconta come Israele abbia fatto del proprio suolo, arido e inospitale, terreno fertile per infinite colture e sperimentazioni agricole d'avanguardia. 
Peccato che il tutto strida, però, con i complicati rapporti diplomatici con la Palestina, che tutt'oggi, dopo decenni, rimane martoriata da Israele. 
Volete per caso dirmi che i contesti sociali, culturali, economici e geopolitici mondiali non influiscono, negli sviluppi dei Paesi?
Volete dirmi che basta decontestualizzare il tutto, parlare solo dei bei cibi che vogliamo mostrare, per parlare di nutrimento del pianeta?
Evidentemente sì. 

Allora lasciatemi almeno mangiare una frittella di zenzero e cipolla nel padiglione del Nepal, tra i mormorii buddisti e le colonne in legno del tempio.
Che faccio finta d'essere altrove.