giovedì 29 novembre 2012

Datemi un Tacchino. Ovvero il mio primo Thanksgiving.



Mi sto maledicendo mentalmente perchè sono passate due settimane dall'ultima volta che ho prodotto qualcosa di leggibile, e avrei voluto scrivere molto di più. Soprattutto perchè tra meno di un mese porto via baracca e burattini e ritornerò a scrivere di...di che? Della metro di Milano e della mia Hyundai Atos del 99.
Quindi vi sto per rifilare un post epico.
Non tanto per quello che scrivo, ma per quello che ho vissuto.
Come sapete qui in Obamalandia festeggiano il Thanksgiving.
E a tutti viene in mente un mega tacchino e cibo a volontà.
E fondamentalmente è quello.
Ma la magia di questa tradizione mi ha travolta come la mattina di Natale quando avevo dieci anni.
Ma partiamo dall'inizio.
Come al solito mi sono portata dietro la mia famiglia adottiva, ovvero Sara e Marina.
Lunedì notte abbiamo dormito tre ore, alle sei eravamo di fronte all'entrata dell'Alumni ad aspettare il taxi.
Freddo, sonno, occhi gonfi, un borsone a testa e ancora la bocca impastata dal sonno. Forse il segno del cuscino sulla guancia. Ma l'aria che ho respirato in quel momento, l'aria di partenza, di viaggio, di novità, di scoperta, di avventura, di nuovi volti, voci e risate, di abbracci e voglia di vivere, non la dimenticherò mai.
Fatto sta che mi sentivo parecchio poetica anche in quel momento, su quel sedile del solito pullman che ci stava portando a New York alle sette di mattina. Quindi ho avuto la forza di sbloccare il mio iPhone (vedete a cosa serve, voi che non capite chi è slavo della tecnologia?) e scrivere una nota chilometrica sul viaggio, le amicizie, il senso della vita e tutti i luoghi comuni che vi vengono in mente.
Ma è davvero una dolcezza.
Quindi la posterò.

20 novembre. 7:58
Nemmeno le otto di mattina. Tre ore di sonno. Musica nelle orecchie e sole che sorge. E tutto quello che mi viene in mente è che sono fatta esattamente per questo. Per spogliarmi di tutto. Mettere due vestiti a caso 
(falso, falsissimo: ci ho pensato per due giorni a lezione, a cosa portare.) in un borsone e muovermi. Partire. Viaggiare. Vedere. Questo paese mi strega, mi chiama e non posso non rispondere. Sto guardando il cielo, ora. E' enorme (Va bene, forse era meglio rileggerlo prima di salvarlo sul cellulare. La banalità fatta a nota). Tutto qui sembra più grande. Sconfinato, non prova mai a soffocarti. Abbraccia. Accoglie. Gli alberi, le strade, le foglie, i colori. I colori sono più grandi, più forti, più penetranti. Ti entrano dentro e non puoi farci nulla. I colori del cielo sono forti, vivi, inebrianti. Tutto fa venire voglia di muoversi, correre, volare, scoprire, scoprirsi. Sono su un sedile di un pullman in mezzo al nulla tra Albany e New York, con due persone che non conoscevo fino a tre mesi fa e ora non riesco a immaginare il momento in cui dovrò separarmi da loro. Mi sento come se non avessi fatto altro nella vita. Da sempre. Non mi sono mai sentita così viva. Così piena di vita, di voglia di fare, i miei occhi non ne hanno mai abbastanza. Mi riscopro con gli angoli della bocca piegati all'insù. Senza accorgermene. Mi lascio andare. Non ancora del tutto. Spesso tendo ancora a controllare, a trovare dei punti fermi, a volere una sicurezza. Ho sempre avuto bisogno di avere tutto sotto controllo. Ma qui è una sfida continua, e io vinco spesso. Ma anche perdere non è male.

Insomma, una perla di poesia, neh?
Cosa volete, dopo tre ore di sonno e un panino al formaggio e salame alle sette del mattino?
Abbiamo volato da NYC a Chicago. Due ore e mezza e tre o quattro stati dopo siamo atterrate nella Città del Vento. Chicago è stupenda. Sono senza parole. Se uno sogna New York guardando Gossip Girl, non ha idea di cosa si perde non sognando Chicago.
Chicago è una distesa di casette e casupole che diventano un gruppo di grattacieli affacciati sul lago. Che potrebbe benissimo essere il Mediterraneo.
New York è e sempre sarà New York.
La città di cui mi stampavo le foto dal mio pc windows 95 e me le appendevo al muro.
Sarà sempre la città in cui ho visto camminare Carrie Bradshaw con le sue Manolo da capogiro.
Ma Chicago ha un fascino che porta via il fiato.
Downtown è decisamente più piccola di Manhattan, più concentrata.
Ma ha ampie strade, negozi ad ogni angolo, palazzi moderni ma anche dal sapore europeo.
Non ti dà quella sensazione di fretta, di vite che corrono frenetiche, di persone che si scontrano uscendo dalla metro o che litigano per un taxi.
Non si sente quell'odore persistente e acido di vino che ti entra nelle narici e non se ne va più.
Chicago è una metropoli che ti mette a tuo agio. Non ti spinge, non ti mette fretta nella rush hour.
A due passi dal Loop metti piedi in Millennium park.
Rimani affascinata dal Bean che riflette tutto il mondo alle tue spalle.
Fai due passi a bordo lago. Ti perdi tra il cielo, il vento, il verde del parco e l'argento scintillante dei grattacieli. Provate a immaginare grattacieli di cui non vedi la fine e un molo enorme che si perde in un lago grande quanto il nostro mare. E' qualcosa di incomprensibile per noi.








Dopo un giorno e mezzo a Chicago abbiamo di nuovo impacchettato tutto e via, dei noodles in una scatola e pronte sul treno per Milwaukee.
Altro giro, altro stato.
Siamo state prelevate direttamente alla stazione da Matt, e via in direzione Grafton, a una ventina di minuti da Milwaukee.
Non appena abbiamo messo piede nella sua casa persa in mezzo agli alberi spogli, non appena abbiamo abbracciato i suoi genitori che ci hanno accolto a braccia aperte, abbiamo sentito aria di famiglia.
Una casetta curata in ogni dettaglio, una casa che sa di famiglia, di cose vere.
L'ospitalità di queste persone non la dimenticherò mai.
Credo che il vero padrone di casa riesca a fare in modo che il proprio ospite si senta davvero a casa, e non solo un ospite che ha paura di toccare qualsiasi cosa per paura di rovinarla.
E si, loro sono stati padroni di casa perfetti.
Dopo pochi minuti ci sentivamo già a casa.
Ci hanno accolte senza problemi, per uno dei giorni più importanti e intimi dell'anno.
Abbiamo aiutato Linda (la mamma) a preparare l'apple crumble, abbiamo chiacchierato e raccontato le nostre vite come se ci conoscessimo da sempre.
Abbiamo abbracciato ogni parente, abbiamo sorriso ad ogni complimento, abbiamo riso ad ogni battuta.
Abbiamo visto il tacchino fumante uscire dal forno.
Abbiamo pregato insieme a loro. Abbiamo ringraziato per il cibo.
Mi ci vedete, voi, a dire la preghiera prima di mangiare?
Eppure lì, in quel momento, mi è sembrata l'unica cosa sensata da fare.
Immergersi dentro culture diverse dalla tua ti fa capire che non sempre hai ragione.
E soprattutto che non sempre esiste un giusto o sbagliato, ma che la vita è molto più flessibile e malleabile, che i confini non sono così netti e che muoversi tra una barriera e l'altra è spettacolare.
Non ho mai dormito meglio in quel letto preparato con amore, che sapeva di lenzuola lavate di fresco e coperte di una nonna che le ha conservate con cura.
Non ho mai apprezzato così tanto un caffè solubile al bancone di una cucina.
Non mi sono mai sentita così serena a più di settemila chilometri da casa.
Due giorni di dolce far niente, di cibo, di football, di maratone di film e di tenerezza in famiglia.
Sarà che mi è venuta in mente la mia, di famiglia, sarà che mi hanno dato l'impressione di essere davvero uniti, sarà che sono lontana da casa, ma non mi sono mai sentita così tanto a casa in questi tre mesi come in quella cittadina nel mezzo del Wisconsin.


Dopo due giorni siamo ripartite.
Tante cose in più nel cuore, un velo di tristezza nel cuore negli abbracci.
Chissà se ci rivedremo ancora.
Nel viaggio di ritorno a Chicago non sono riuscita a dormire.
Ho scritto una nuova nota.

23 novembre. 10:26
Altro mezzo di trasporto, altro Stato, altra alba. Sono sul treno che torna a Chicago dopo due giorni di America pura a Grafton. Immersa nel nulla, fattorie con granai stile Clark Kent, casette da set di Desperate Housewives. Ho amato il MidWest, con il suo accento morbido e comprensibile, molto meno ritmato di quello di New York. E' quando inizi a distinguere gli accenti che ti senti davvero potente, fuck yeah. Scusate. Dicevo. Ho amato il MidWest per il suo adattarsi perfettamente al mio concetto di America. L'America che va oltre la metropoli, quella che si nasconde in casette di legno, in dettagli, in ghirlande di foglie secche, in bandiere con tacchini, in lucine di Natale attorcigliate intorno ai corrimano dei portici delle case. Ho amato il MidWest per la sua aria di fresco, di aperto. Per i sorrisi della gente che ho incontrato e mi ha ospitato. Per la gentilezza e la cura con cui sono stata trattata, una sconosciuta a casa loro. Ho passato un giorno del ringraziamento da sogno. Ho sorriso emozionata ad ogni passo della cottura dei piatti. Ho abbracciato parenti che non vedrò probabilmente mai più. Ho guardato dentro occhi che forse non incrocerò più ma le sensazioni che mi hanno dato non le dimenticherò mai. Mi sento anche io di ringraziare. In questo momento sono così ubriaca di cibo, affetto, sorrisi, abbracci, e sonno che snocciolerei una lista infinita.
Che parte dai miei genitori. Che mi hanno dato la possibilità di essere dove sono. Che nonostante le mille paure hanno stretto i denti e mi hanno lasciata andare. Va avanti con tutte le persone che mi sono accanto da casa, vicine ma lontane. Con chi mi ha sempre supportata, anche con i miei deliri. Un grazie gigantesco alle due persone che mi hanno coccolata come se fossimo amiche da sempre, Sara e Marina. Con loro le parole spesso non servono, sappiamo benissimo quando tacere.
Ringrazio chiunque sia capitato sulla mia strada in questi tre mesi, perchè ha contribuito a spogliarmi di tante mie paure e a rendere il mio sorriso meno insicuro.
Ringrazio di avere la possibilità di farmi entrare tutto nella pelle, di vivere quello che ho sempre immaginato dall'interno. Di capirlo. Di rigirarmelo tra le mani come un giocattolo e scrutarlo con la curiosità di un bambino. 
Ringrazio me, perchè non ho più paura di superare i miei limiti. Perchè la sensazione di guardarsi intorno non ha paragoni.

Siamo ritornate a Chicago. E questo è quello che abbiamo trovato.




Per finire, ho trovato un'ultima nota.
Stavo guardando l'alba dall'oblò. Sul mio volo delle 5.45.
Stavo tornando a quella che per questi tre mesi è stata casa.

24 novembre. 6:38Sei e trentotto. Guardo a destra e vedo nuvole pannose, stringo gli occhi verso il sole che ha appena fatto capolino dalla distesa bianca e increspata. Ho dormito tre ore.
Posso vedere i miei occhietti stanchi riflessi nello schermo del telefono.
Una figa, insomma.
Il nostro Thanksgiving break è quasi finito e torniamo a casa cariche di nuove cose.
Abbiamo messi piede nella Willis Tower. 103 piani. Immaginatemi nello sclero dell'altezza. Ma mi ha tolto il fiato. Il mondo visto dall'alto ha tutto un altro gusto. Un pò come guardarlo da questo oblò. Paradossalmente è uno dei pochi posti dove mi sento al sicuro. Quassù, nel silenzio. Mentre le altre dormono e io mi perdo nelle tonnellate di stupidaggini che ho nella testa e nei colori di una mattina di novembre oltreoceano.

Questo è tutto quello che sono riuscita a produrre sull'aereo.
Che è tanto con sole tre ore di sonno alle spalle.
Ma la cosa stupenda è che ripartirei domani mattina, senza una meta, senza un albergo, senza nulla.
Solo con la voglia di fare che mi accompagna sempre e le mie due compari.




E l'iPhone. Ovviamente.

giovedì 15 novembre 2012

La forza dell'ormone

Sarà che sono più tonda e si sa, più ciccetta hai più ormoni gironzolano indisturbati nel tuo corpo, sarà che mi sono autodiagnosticata un bipolarismo cronico, sarà che sono donna e per definizione fuori di testa molto sensibile, ma stasera c'ho la malinconia nell'anima.
Di casa?
Non esattamente.
Di qui.
Ieri sera eravamo al pub, IL pub, il nostro. La WTs.
Avevo anche un esame di francese oggi, in cui ho dovuto registrarmi per 3 minuti su di un Mac. Parlando in francese. Ma la cosa bella è che era un video.
In ogni caso, eravamo tutti lì.
Un'amica irlandese venuta qui per la settimana partiva oggi e volevamo salutarla.
Egnente, immaginatevi che già sono triste di aver salutato lei dopo una settimana, figuriamoci tutti gli altri.
Poi il fato, il destino, il karma e il feng shui messi insieme hanno fatto passare alla radio questa canzone:

Vitamin C - Graduation

Vi consiglio di ascoltarla soprattutto se siete dei nostalgici degli anni novanta e dei licei alla Dawson's Creek.
E guardatevi il video perchè l'abbigliamento (americano) anni novanta merita non poco.
Il testo in poche parole parla di una classe di liceo che si separerà dopo 5 anni.
Finisci il liceo, non hai la più pallida idea di cosa tu abbia studiato a fare, di cosa tu voglia fare nella vita ma ti senti sul tetto del mondo.
Quando hai 18 anni, una rivoluzione nella mente, una ribellione nel cuore e una hola nelle mutande.
Ups.
In ogni caso, quando prometti che sì, sarete amici per sempre no matter what.
Che ci sarai sempre.
Che vorrete sempre bbbbene.
E sai benissimo che con la metà di loro non parlerai mai più.
Ma comunque, per non sprofondare nel cinismo più buio, ritorniamo al mio punto.
Passa questa canzone alla radio.
E via con i "ci pensi tra un mese ci salutiamo tutti.." "Oh, facciamo un Eurotrip appena finisco l'internship.." "St'estate vengo in Brasile!" (Questa l'ho detta io, madre e padre). E quando li dici ci credi.
Perchè è vero, che ci vuoi credere.
Sai benissimo che nulla sarà come te lo immagini, che una volta partiti tutti rivedersi sarà uno di quei gusti dolciamari che sanno di minestra del giorno dopo.
Sai benissimo che alla fine tutto cambia, perchè semplicemente deve cambiare.
Ma aggrapparci con le unghie a quello che ormai ci appartiene è scritto nel nostro DNA.
Qui inizia a mancare un mesetto e ormai questo "non voglio tornare a casa" inizia ad essere un ritornello buttato lì in ogni conversazione.
Che poi in realtà so che vorrei tornare.Ma con la certezza di poter ritornare qui con uno schiocco di dita.
Mi manca tutto, costantemente.
Il bidet prima di voi tutti, sappiatelo.
Ma comunque non vedo l'ora di riabbracciarvi tutti, e spupazzarvi per bene.
E' solo che quando sono partita sapevo benissimo che sarei tornata.
Nessuna certezza è crollata.
Troverò tutto come l'avevo lasciato (o quasi).
Quando lascerò questo posto so benissimo che non lo rivedrò più.
(Va bene. Dov'è lo sgabello? E il cappio? Un antidepressivo?)
Ma perchè ci sto pensando adesso?
Sto blaterando.
Saranno le troppe poche ore di sonno.
(E la quantità di zuccheri che ingurgito)



Ho prodotto di nuovo un post che non mi soddisfa, ma voi cliccate qui sopra, ascoltatevi la canzone e pensate a quando avete promesso a qualcuno che non vi sarete mai separati, perchè in quel momento ci credevate e sognavate un'amicizia infinita.
E per la miseria, me lo sono fatto anche tatuare sul polso, che io sono una sognatrice.
Troppo concentrata nel mio mondo per avere voglia di aprire gli occhi. 

mercoledì 14 novembre 2012

Obamatown - Neverending trip



Dateci un weekend, ottanta dollari e infinite 8 ore totali di pullman e andiamo in capo al mondo.
O meglio, nella capitale degli Stati Uniti.
Sei e mezza di mattina, tre tonne imbacuccate come fossimo al polo, un taxi, una stazione dei pullman.
Un pò di nanna sconnessa fino a New York.
Due passi fino all'altra stazione dei pullman.
E poi via, pigiate negli ultimi sedili di un Megabus verso l'infinito e oltre.
Roba che io non riesco a dormire nel mio letto, figuriamoci su un sedile del bus.
Abbiamo attraversato il New Jersey, un pezzo di Pennsylvania, il Delaware e il Maryland.
Mi sono sentita molto Jack Kerouac in On The Road, peccato che al posto della macchina mi è toccato il pullman. Ma almeno avevo il wifi. I vantaggi di viaggiare nell'era di Steve Jobs.
Sfiorato lo sclero dopo un'ora in più di ritardo, mettiamo piede fuori dalla stazione.
Premetto che chi di voi è stato a Washignton mi ha detto: mah, robetta. Fa schifino.
E io con la gioia di un ornitorinco ho trascinato le mie membra in un posto che pensavo facesse schifino.
Ma la vita ha voluto sorprendermi, e o a me piacciono le cose brutte, o Washington è davvero bella.
Cioè, tenete conto che io vivo ad Albany.
Dove credo abbiano preso spunto per tutti i personaggi di Prison Break.
(Per la cronaca, tutto il personale che lavora alla dining hall è ex carcerato. Seriamente)
Quindi, immaginatemi nella capitale ricca del paese più orgoglioso di sé stesso al mondo.
Nessun grattacielo, solo grandezza.
Palazzi messi un pò lì a caso, imponenti, vicino a casette a due piani che ricordano tanto una Londra per bene.
E poi lei, la Casa Bianca.
Minuscola.
Voi vi aspettate una roba gigantesca ma la foto che vedete qui sopra è stata zoomata diecimila volte.
Ma il suo effetto lo fa stesso.






E poi uno spazio enorme, infinito, che sa di respiro e di storia.
Cosa non facile da trovare in America, soprattutto per noi abituati a Roma e ai suoi millenni di brividi storici.
Qui la cosa più vecchia che hanno è il Thanksgiving.
Comunque, dicevo, sa davvero di storia.
Camminavo lungo l'immensa fontana del Lincoln memorial e mi immaginavo Martin Luther King fare il suo discorso.
Perchè sono idiota nell'anima, ma poi mi commuovo per queste cose.
Ho in mente le foto in bianco nero di quel posto immenso, gremito di gente, con un uomo che la tiene in pugno dicendo di avere un sogno. E sbam. Mi emoziono come una bambina.
Il tempio che sembra romano, la statua enorme di Lincoln.
E poi l'obelisco.
Immenso, circondato da innumerevoli bandiere statunitensi.
Roba che nemmeno noi quando abbiamo vinto i mondiali.
Ed è subito Dan Brown e la storia dei massoni.
Certo che quando voglio faccio proprio la mia porca figura di persona colta.
Abbiamo visto il Capitol.
E il monumento a Martin Luther King.
E quello alla guerra del Vietnam.
Abbiamo chiacchierato con i veterani. Sulle loro magliette c'è scritto "Every day is a bonus".
E hanno ragione.Si impara anche così, in una ventosa mattinata turistica a Washington.
E infine il lago artificiale, e sull'altra sponda il Jefferson memorial.
Altro tempio, altro premio.
Un'altra statua.
Un altro silenzio e un'altra riflessione.
Gli americani quando si impegnano mi strappano il cuore.

Abbiamo fatto foto, mangiato in un ristorante spagnolo, scoperto le vie lussuose della capitale.
Ci hanno offerto il gelato all'Hard Rock Cafè perchè eravamo internazionali.
Abbiamo fatto colazione col Washington post e il sole caldo in faccia.
Un ottantenne di nome Luigi, americano ma di origini spagnole ci ha chiesto se abbiamo partecipato a Miss Universo.
Abbiamo mangiato cinese alle quattro del mattino.
Abbiamo riso, ballato, bevuto qualche birra, sognato insieme.
Abbiamo condiviso tutto quello che si può condividere.
Il bello di questa esperienza e di questi viaggi è che ti avvicinano alle persone, di botto.
Così, di corsa, ti costringono ad aprirti, a farti vedere, a lasciarti scoprire.
Velocemente.
Senza aver tempo di pensare.
Ti legano agli altri in un modo che non accade spesso.
Quando sei catapultata in un altro mondo, con un'altra lingua, senza nessun appoggio, sei più vulnerabile.
E trovare qualcuno che ti copra le spalle è una sensazione meravigliosa.


E poi nulla, abbiamo fatto qualche foto con le attrazioni locali.
(Possiamo fare una foto con voi? EH? Roba che manco le quattordicenni con Justin Bieber. Ma tant'è.)

giovedì 8 novembre 2012

Annuso, respiro, tocco, spio, ascolto e assaggio.

Avrei voluto sistemare la mia camera molto prima, stasera.
Avrei voluto fare la doccia molto prima.
Avrei voluto avere il tempo di scrivere un post epico su Washignton, stasera.
Avrei voluto scrivere un pezzo da premio Pulitzer.
E invece.
E invece sono le due di notte, sono stanca morta ma sono troppo eccitata per dormire.
Una giornata lunghissima, ma piena di dettagli che l'hanno resa intensa.
Gesti, parole, sguardi. Risate. Stupidaggini.
Soprattutto parole.
La soddisfazione di far parte di un lavoro di gruppo, esprimere le mie idee e vedere che gli altri le apprezzano. Non nella mia lingua.
Non avete idea della goduria.
Una cena che poteva essere solitaria, ma che è finita con due risate e una creazione di frutta e cioccolato.
Perchè qui incontri chiunque e sono tutti felici di vederti.
Gli occhi sorridono.
Sono curiosi, indagatori, sinceri.
Le persone hanno voglia di parlare, di condividere, di sapere.
Sono come bambini a cui mostri per la prima volta la televisione.
Ti guardano con la stessa curiosità di un bambino. Quella sincera, quella autentica.
E conoscere per loro e per me non è mai stato così bello e appagante.

Oggi la mamma di Marina ha dedicato a me lei e Sara un pezzo di canzone, in italiano.
Niente di ciò che verrà domani
Sará com'è già stato ieri
Tutto passa tutto sempre passerà
La vita, come un'onda come il mare
In un va e viene infinito
Quel che poi vedremo è
Diverso da ciò che abbiamo visto ieri
Tutto cambia, il tempo tutto nel mondo
Non serve a niente fuggire
Nè mentire a se stesso
Amore, se hai ancora un posto nel cuore
Mi ci tuffo dentro
Come fa un'onda del mare.

Volevo piangere, lo giuro.
La cosa più dolce del mondo.
La mia anima da drama queen mi porta a lacrimare ogni due per tre, chi mi conosce lo sa.
(Purtroppo per lui)

E poi niente, io e Sara abbiamo prenotato il volo per Chicago durante il Thanksgiving break.
Non riesco nemmeno a spiegare cosa si sta muovendo nel mio stomaco dall'eccitazione.
Vorrei partire domani ma allo stesso tempo voglio godermi ogni giorno qui.
Il tempo vola, tra un mese e mezzo dovrò salutare tutti e mi si spezza il cuore.
Diciamo che il Natale a NY mi distrarrà a dovere, eh.
Ma lascerò un gran pezzo di cuore in questa modesta e sconosciuta capitale americana.
Oggi stavo pensando a cosa mi mancherà.
Bene, adesso vi tocca sorbirvi la lista.
Adoro le liste.

Mi mancherà avere appesa al collo la mia SUNY card e le mie chiavi.
Mi mancherà Mary, la dolcissima vecchina che al mattino sta all'entrata della dining hall e mi dice sempre "goodmorning honey".
Mi mancherà il "I'll grab a coffee" prima delle lezioni e dello studio in biblioteca.
Mi mancherà pure la puzza di fritto che mi si appiccica addosso ogni santa volta che metto piede nella dining hall.
Mi mancherà il mio letto, la mia scrivania, la mia stanzetta striminzita, vecchiotta e oldfashioned.
Mi mancherà bussare alla porta delle ragazze quando sono annoiata.
Mi mancherà la WTs, Barleys, il Pearl Street pub, De Johns e tutti i posti dove andiamo di solito.
Mi mancherà l'odore di caffè che si sente al mattino.
Mi mancherà la tazza di carta bollente da stringere con entrambe le mani per scaldarsi.
Mi mancherà Washington park.
Mi mancherà il CVS, Price Chopper, Walmart e soprattutto quel paradiso che è il Crossgates mall.
Mi mancherà lo shuttle con i sedili imbottiti al mattino (quando sarò sulla 94 a Milano).
Mi mancherà il suono della risata di Sara e l'espressione di Marina quando sta per ridere.
Mi mancheranno le confidenze con Alice.
Mi mancherà viaggiare in giro per gli States con un borsone e la voglia vivere negli occhi, nello stomaco e nelle vene.
Mi mancherà l'odore di casa che mi è entrato nel naso e non se ne vuole andare.
Mi mancherà il mio cestino con le cose per la doccia.
Mi mancherà dire "Bitch please" ogni tre parole.
Mi mancherà ascoltare "Chicken Fried" il giovedì sera alla WTs.
Mi mancherà il suono di come la gente pronuncia "Hey wassup".
Mi mancherà capire ormai (quasi) tutto di cosa dicono i professori a lezione e le mie serie preferite.
Mi mancherà pure dire "What?" almeno tre o quattro volte quando parlo con i miei amici inglesi e irlandesi, e secondo come fare finta di aver capito alla quarta volta e ridacchiare nervosamente.
Mi mancheranno i quattro isolati a piedi fino al supermercato, ogni volta percorsi col naso all'insù a guardare le case o le foglie degli alberi.
Mi mancheranno le cene in pigiama, che sanno di amici, di calore, di parole e di angoli della bocca piegati all'insù.
Mi mancherà la sensazione di essere straniera ma un pò adottata.
Mi mancherà il senso di appartenenza a questa università il giallo e il viola, leggere USA Today al mattino come se fosse Repubblica.
Mi mancheranno i cereali con lo yogurt.
I waffles.
I quarantamila tipi di cookies e pringles.
Mi mancheranno un pò meno i vicini che corrono i skateboard alle quattro di notte per il corridoio.
Mi mancherà un pò meno il bagno in comune, in effetti.

Mi mancherà soprattutto la sensazione di essere parte di qualcosa, di qualcuno. Si essere entrata nella pelle delle persone che ho conosciuto nello stesso modo in cui loro sono entrate nella mia.
Mi mancherà tutto quello che vedo, ascolto, respiro, gusto e tocco ogni giorno.
Mi mancherà tutto quello che ho stampato in mente, negli occhi, nel naso.
Mi mancherà ogni minuto vissuto dall'altra parte del mondo.
Mi mancherà la sensazione di essere così viva, potente, vibrante.

Mi mancherà il mio angolo di America.

Datemi un Tacchino. Ovvero il mio primo Thanksgiving.



Mi sto maledicendo mentalmente perchè sono passate due settimane dall'ultima volta che ho prodotto qualcosa di leggibile, e avrei voluto scrivere molto di più. Soprattutto perchè tra meno di un mese porto via baracca e burattini e ritornerò a scrivere di...di che? Della metro di Milano e della mia Hyundai Atos del 99.
Quindi vi sto per rifilare un post epico.
Non tanto per quello che scrivo, ma per quello che ho vissuto.
Come sapete qui in Obamalandia festeggiano il Thanksgiving.
E a tutti viene in mente un mega tacchino e cibo a volontà.
E fondamentalmente è quello.
Ma la magia di questa tradizione mi ha travolta come la mattina di Natale quando avevo dieci anni.
Ma partiamo dall'inizio.
Come al solito mi sono portata dietro la mia famiglia adottiva, ovvero Sara e Marina.
Lunedì notte abbiamo dormito tre ore, alle sei eravamo di fronte all'entrata dell'Alumni ad aspettare il taxi.
Freddo, sonno, occhi gonfi, un borsone a testa e ancora la bocca impastata dal sonno. Forse il segno del cuscino sulla guancia. Ma l'aria che ho respirato in quel momento, l'aria di partenza, di viaggio, di novità, di scoperta, di avventura, di nuovi volti, voci e risate, di abbracci e voglia di vivere, non la dimenticherò mai.
Fatto sta che mi sentivo parecchio poetica anche in quel momento, su quel sedile del solito pullman che ci stava portando a New York alle sette di mattina. Quindi ho avuto la forza di sbloccare il mio iPhone (vedete a cosa serve, voi che non capite chi è slavo della tecnologia?) e scrivere una nota chilometrica sul viaggio, le amicizie, il senso della vita e tutti i luoghi comuni che vi vengono in mente.
Ma è davvero una dolcezza.
Quindi la posterò.

20 novembre. 7:58
Nemmeno le otto di mattina. Tre ore di sonno. Musica nelle orecchie e sole che sorge. E tutto quello che mi viene in mente è che sono fatta esattamente per questo. Per spogliarmi di tutto. Mettere due vestiti a caso 
(falso, falsissimo: ci ho pensato per due giorni a lezione, a cosa portare.) in un borsone e muovermi. Partire. Viaggiare. Vedere. Questo paese mi strega, mi chiama e non posso non rispondere. Sto guardando il cielo, ora. E' enorme (Va bene, forse era meglio rileggerlo prima di salvarlo sul cellulare. La banalità fatta a nota). Tutto qui sembra più grande. Sconfinato, non prova mai a soffocarti. Abbraccia. Accoglie. Gli alberi, le strade, le foglie, i colori. I colori sono più grandi, più forti, più penetranti. Ti entrano dentro e non puoi farci nulla. I colori del cielo sono forti, vivi, inebrianti. Tutto fa venire voglia di muoversi, correre, volare, scoprire, scoprirsi. Sono su un sedile di un pullman in mezzo al nulla tra Albany e New York, con due persone che non conoscevo fino a tre mesi fa e ora non riesco a immaginare il momento in cui dovrò separarmi da loro. Mi sento come se non avessi fatto altro nella vita. Da sempre. Non mi sono mai sentita così viva. Così piena di vita, di voglia di fare, i miei occhi non ne hanno mai abbastanza. Mi riscopro con gli angoli della bocca piegati all'insù. Senza accorgermene. Mi lascio andare. Non ancora del tutto. Spesso tendo ancora a controllare, a trovare dei punti fermi, a volere una sicurezza. Ho sempre avuto bisogno di avere tutto sotto controllo. Ma qui è una sfida continua, e io vinco spesso. Ma anche perdere non è male.

Insomma, una perla di poesia, neh?
Cosa volete, dopo tre ore di sonno e un panino al formaggio e salame alle sette del mattino?
Abbiamo volato da NYC a Chicago. Due ore e mezza e tre o quattro stati dopo siamo atterrate nella Città del Vento. Chicago è stupenda. Sono senza parole. Se uno sogna New York guardando Gossip Girl, non ha idea di cosa si perde non sognando Chicago.
Chicago è una distesa di casette e casupole che diventano un gruppo di grattacieli affacciati sul lago. Che potrebbe benissimo essere il Mediterraneo.
New York è e sempre sarà New York.
La città di cui mi stampavo le foto dal mio pc windows 95 e me le appendevo al muro.
Sarà sempre la città in cui ho visto camminare Carrie Bradshaw con le sue Manolo da capogiro.
Ma Chicago ha un fascino che porta via il fiato.
Downtown è decisamente più piccola di Manhattan, più concentrata.
Ma ha ampie strade, negozi ad ogni angolo, palazzi moderni ma anche dal sapore europeo.
Non ti dà quella sensazione di fretta, di vite che corrono frenetiche, di persone che si scontrano uscendo dalla metro o che litigano per un taxi.
Non si sente quell'odore persistente e acido di vino che ti entra nelle narici e non se ne va più.
Chicago è una metropoli che ti mette a tuo agio. Non ti spinge, non ti mette fretta nella rush hour.
A due passi dal Loop metti piedi in Millennium park.
Rimani affascinata dal Bean che riflette tutto il mondo alle tue spalle.
Fai due passi a bordo lago. Ti perdi tra il cielo, il vento, il verde del parco e l'argento scintillante dei grattacieli. Provate a immaginare grattacieli di cui non vedi la fine e un molo enorme che si perde in un lago grande quanto il nostro mare. E' qualcosa di incomprensibile per noi.








Dopo un giorno e mezzo a Chicago abbiamo di nuovo impacchettato tutto e via, dei noodles in una scatola e pronte sul treno per Milwaukee.
Altro giro, altro stato.
Siamo state prelevate direttamente alla stazione da Matt, e via in direzione Grafton, a una ventina di minuti da Milwaukee.
Non appena abbiamo messo piede nella sua casa persa in mezzo agli alberi spogli, non appena abbiamo abbracciato i suoi genitori che ci hanno accolto a braccia aperte, abbiamo sentito aria di famiglia.
Una casetta curata in ogni dettaglio, una casa che sa di famiglia, di cose vere.
L'ospitalità di queste persone non la dimenticherò mai.
Credo che il vero padrone di casa riesca a fare in modo che il proprio ospite si senta davvero a casa, e non solo un ospite che ha paura di toccare qualsiasi cosa per paura di rovinarla.
E si, loro sono stati padroni di casa perfetti.
Dopo pochi minuti ci sentivamo già a casa.
Ci hanno accolte senza problemi, per uno dei giorni più importanti e intimi dell'anno.
Abbiamo aiutato Linda (la mamma) a preparare l'apple crumble, abbiamo chiacchierato e raccontato le nostre vite come se ci conoscessimo da sempre.
Abbiamo abbracciato ogni parente, abbiamo sorriso ad ogni complimento, abbiamo riso ad ogni battuta.
Abbiamo visto il tacchino fumante uscire dal forno.
Abbiamo pregato insieme a loro. Abbiamo ringraziato per il cibo.
Mi ci vedete, voi, a dire la preghiera prima di mangiare?
Eppure lì, in quel momento, mi è sembrata l'unica cosa sensata da fare.
Immergersi dentro culture diverse dalla tua ti fa capire che non sempre hai ragione.
E soprattutto che non sempre esiste un giusto o sbagliato, ma che la vita è molto più flessibile e malleabile, che i confini non sono così netti e che muoversi tra una barriera e l'altra è spettacolare.
Non ho mai dormito meglio in quel letto preparato con amore, che sapeva di lenzuola lavate di fresco e coperte di una nonna che le ha conservate con cura.
Non ho mai apprezzato così tanto un caffè solubile al bancone di una cucina.
Non mi sono mai sentita così serena a più di settemila chilometri da casa.
Due giorni di dolce far niente, di cibo, di football, di maratone di film e di tenerezza in famiglia.
Sarà che mi è venuta in mente la mia, di famiglia, sarà che mi hanno dato l'impressione di essere davvero uniti, sarà che sono lontana da casa, ma non mi sono mai sentita così tanto a casa in questi tre mesi come in quella cittadina nel mezzo del Wisconsin.


Dopo due giorni siamo ripartite.
Tante cose in più nel cuore, un velo di tristezza nel cuore negli abbracci.
Chissà se ci rivedremo ancora.
Nel viaggio di ritorno a Chicago non sono riuscita a dormire.
Ho scritto una nuova nota.

23 novembre. 10:26
Altro mezzo di trasporto, altro Stato, altra alba. Sono sul treno che torna a Chicago dopo due giorni di America pura a Grafton. Immersa nel nulla, fattorie con granai stile Clark Kent, casette da set di Desperate Housewives. Ho amato il MidWest, con il suo accento morbido e comprensibile, molto meno ritmato di quello di New York. E' quando inizi a distinguere gli accenti che ti senti davvero potente, fuck yeah. Scusate. Dicevo. Ho amato il MidWest per il suo adattarsi perfettamente al mio concetto di America. L'America che va oltre la metropoli, quella che si nasconde in casette di legno, in dettagli, in ghirlande di foglie secche, in bandiere con tacchini, in lucine di Natale attorcigliate intorno ai corrimano dei portici delle case. Ho amato il MidWest per la sua aria di fresco, di aperto. Per i sorrisi della gente che ho incontrato e mi ha ospitato. Per la gentilezza e la cura con cui sono stata trattata, una sconosciuta a casa loro. Ho passato un giorno del ringraziamento da sogno. Ho sorriso emozionata ad ogni passo della cottura dei piatti. Ho abbracciato parenti che non vedrò probabilmente mai più. Ho guardato dentro occhi che forse non incrocerò più ma le sensazioni che mi hanno dato non le dimenticherò mai. Mi sento anche io di ringraziare. In questo momento sono così ubriaca di cibo, affetto, sorrisi, abbracci, e sonno che snocciolerei una lista infinita.
Che parte dai miei genitori. Che mi hanno dato la possibilità di essere dove sono. Che nonostante le mille paure hanno stretto i denti e mi hanno lasciata andare. Va avanti con tutte le persone che mi sono accanto da casa, vicine ma lontane. Con chi mi ha sempre supportata, anche con i miei deliri. Un grazie gigantesco alle due persone che mi hanno coccolata come se fossimo amiche da sempre, Sara e Marina. Con loro le parole spesso non servono, sappiamo benissimo quando tacere.
Ringrazio chiunque sia capitato sulla mia strada in questi tre mesi, perchè ha contribuito a spogliarmi di tante mie paure e a rendere il mio sorriso meno insicuro.
Ringrazio di avere la possibilità di farmi entrare tutto nella pelle, di vivere quello che ho sempre immaginato dall'interno. Di capirlo. Di rigirarmelo tra le mani come un giocattolo e scrutarlo con la curiosità di un bambino. 
Ringrazio me, perchè non ho più paura di superare i miei limiti. Perchè la sensazione di guardarsi intorno non ha paragoni.

Siamo ritornate a Chicago. E questo è quello che abbiamo trovato.




Per finire, ho trovato un'ultima nota.
Stavo guardando l'alba dall'oblò. Sul mio volo delle 5.45.
Stavo tornando a quella che per questi tre mesi è stata casa.

24 novembre. 6:38Sei e trentotto. Guardo a destra e vedo nuvole pannose, stringo gli occhi verso il sole che ha appena fatto capolino dalla distesa bianca e increspata. Ho dormito tre ore.
Posso vedere i miei occhietti stanchi riflessi nello schermo del telefono.
Una figa, insomma.
Il nostro Thanksgiving break è quasi finito e torniamo a casa cariche di nuove cose.
Abbiamo messi piede nella Willis Tower. 103 piani. Immaginatemi nello sclero dell'altezza. Ma mi ha tolto il fiato. Il mondo visto dall'alto ha tutto un altro gusto. Un pò come guardarlo da questo oblò. Paradossalmente è uno dei pochi posti dove mi sento al sicuro. Quassù, nel silenzio. Mentre le altre dormono e io mi perdo nelle tonnellate di stupidaggini che ho nella testa e nei colori di una mattina di novembre oltreoceano.

Questo è tutto quello che sono riuscita a produrre sull'aereo.
Che è tanto con sole tre ore di sonno alle spalle.
Ma la cosa stupenda è che ripartirei domani mattina, senza una meta, senza un albergo, senza nulla.
Solo con la voglia di fare che mi accompagna sempre e le mie due compari.




E l'iPhone. Ovviamente.

La forza dell'ormone

Sarà che sono più tonda e si sa, più ciccetta hai più ormoni gironzolano indisturbati nel tuo corpo, sarà che mi sono autodiagnosticata un bipolarismo cronico, sarà che sono donna e per definizione fuori di testa molto sensibile, ma stasera c'ho la malinconia nell'anima.
Di casa?
Non esattamente.
Di qui.
Ieri sera eravamo al pub, IL pub, il nostro. La WTs.
Avevo anche un esame di francese oggi, in cui ho dovuto registrarmi per 3 minuti su di un Mac. Parlando in francese. Ma la cosa bella è che era un video.
In ogni caso, eravamo tutti lì.
Un'amica irlandese venuta qui per la settimana partiva oggi e volevamo salutarla.
Egnente, immaginatevi che già sono triste di aver salutato lei dopo una settimana, figuriamoci tutti gli altri.
Poi il fato, il destino, il karma e il feng shui messi insieme hanno fatto passare alla radio questa canzone:

Vitamin C - Graduation

Vi consiglio di ascoltarla soprattutto se siete dei nostalgici degli anni novanta e dei licei alla Dawson's Creek.
E guardatevi il video perchè l'abbigliamento (americano) anni novanta merita non poco.
Il testo in poche parole parla di una classe di liceo che si separerà dopo 5 anni.
Finisci il liceo, non hai la più pallida idea di cosa tu abbia studiato a fare, di cosa tu voglia fare nella vita ma ti senti sul tetto del mondo.
Quando hai 18 anni, una rivoluzione nella mente, una ribellione nel cuore e una hola nelle mutande.
Ups.
In ogni caso, quando prometti che sì, sarete amici per sempre no matter what.
Che ci sarai sempre.
Che vorrete sempre bbbbene.
E sai benissimo che con la metà di loro non parlerai mai più.
Ma comunque, per non sprofondare nel cinismo più buio, ritorniamo al mio punto.
Passa questa canzone alla radio.
E via con i "ci pensi tra un mese ci salutiamo tutti.." "Oh, facciamo un Eurotrip appena finisco l'internship.." "St'estate vengo in Brasile!" (Questa l'ho detta io, madre e padre). E quando li dici ci credi.
Perchè è vero, che ci vuoi credere.
Sai benissimo che nulla sarà come te lo immagini, che una volta partiti tutti rivedersi sarà uno di quei gusti dolciamari che sanno di minestra del giorno dopo.
Sai benissimo che alla fine tutto cambia, perchè semplicemente deve cambiare.
Ma aggrapparci con le unghie a quello che ormai ci appartiene è scritto nel nostro DNA.
Qui inizia a mancare un mesetto e ormai questo "non voglio tornare a casa" inizia ad essere un ritornello buttato lì in ogni conversazione.
Che poi in realtà so che vorrei tornare.Ma con la certezza di poter ritornare qui con uno schiocco di dita.
Mi manca tutto, costantemente.
Il bidet prima di voi tutti, sappiatelo.
Ma comunque non vedo l'ora di riabbracciarvi tutti, e spupazzarvi per bene.
E' solo che quando sono partita sapevo benissimo che sarei tornata.
Nessuna certezza è crollata.
Troverò tutto come l'avevo lasciato (o quasi).
Quando lascerò questo posto so benissimo che non lo rivedrò più.
(Va bene. Dov'è lo sgabello? E il cappio? Un antidepressivo?)
Ma perchè ci sto pensando adesso?
Sto blaterando.
Saranno le troppe poche ore di sonno.
(E la quantità di zuccheri che ingurgito)



Ho prodotto di nuovo un post che non mi soddisfa, ma voi cliccate qui sopra, ascoltatevi la canzone e pensate a quando avete promesso a qualcuno che non vi sarete mai separati, perchè in quel momento ci credevate e sognavate un'amicizia infinita.
E per la miseria, me lo sono fatto anche tatuare sul polso, che io sono una sognatrice.
Troppo concentrata nel mio mondo per avere voglia di aprire gli occhi. 

Obamatown - Neverending trip



Dateci un weekend, ottanta dollari e infinite 8 ore totali di pullman e andiamo in capo al mondo.
O meglio, nella capitale degli Stati Uniti.
Sei e mezza di mattina, tre tonne imbacuccate come fossimo al polo, un taxi, una stazione dei pullman.
Un pò di nanna sconnessa fino a New York.
Due passi fino all'altra stazione dei pullman.
E poi via, pigiate negli ultimi sedili di un Megabus verso l'infinito e oltre.
Roba che io non riesco a dormire nel mio letto, figuriamoci su un sedile del bus.
Abbiamo attraversato il New Jersey, un pezzo di Pennsylvania, il Delaware e il Maryland.
Mi sono sentita molto Jack Kerouac in On The Road, peccato che al posto della macchina mi è toccato il pullman. Ma almeno avevo il wifi. I vantaggi di viaggiare nell'era di Steve Jobs.
Sfiorato lo sclero dopo un'ora in più di ritardo, mettiamo piede fuori dalla stazione.
Premetto che chi di voi è stato a Washignton mi ha detto: mah, robetta. Fa schifino.
E io con la gioia di un ornitorinco ho trascinato le mie membra in un posto che pensavo facesse schifino.
Ma la vita ha voluto sorprendermi, e o a me piacciono le cose brutte, o Washington è davvero bella.
Cioè, tenete conto che io vivo ad Albany.
Dove credo abbiano preso spunto per tutti i personaggi di Prison Break.
(Per la cronaca, tutto il personale che lavora alla dining hall è ex carcerato. Seriamente)
Quindi, immaginatemi nella capitale ricca del paese più orgoglioso di sé stesso al mondo.
Nessun grattacielo, solo grandezza.
Palazzi messi un pò lì a caso, imponenti, vicino a casette a due piani che ricordano tanto una Londra per bene.
E poi lei, la Casa Bianca.
Minuscola.
Voi vi aspettate una roba gigantesca ma la foto che vedete qui sopra è stata zoomata diecimila volte.
Ma il suo effetto lo fa stesso.






E poi uno spazio enorme, infinito, che sa di respiro e di storia.
Cosa non facile da trovare in America, soprattutto per noi abituati a Roma e ai suoi millenni di brividi storici.
Qui la cosa più vecchia che hanno è il Thanksgiving.
Comunque, dicevo, sa davvero di storia.
Camminavo lungo l'immensa fontana del Lincoln memorial e mi immaginavo Martin Luther King fare il suo discorso.
Perchè sono idiota nell'anima, ma poi mi commuovo per queste cose.
Ho in mente le foto in bianco nero di quel posto immenso, gremito di gente, con un uomo che la tiene in pugno dicendo di avere un sogno. E sbam. Mi emoziono come una bambina.
Il tempio che sembra romano, la statua enorme di Lincoln.
E poi l'obelisco.
Immenso, circondato da innumerevoli bandiere statunitensi.
Roba che nemmeno noi quando abbiamo vinto i mondiali.
Ed è subito Dan Brown e la storia dei massoni.
Certo che quando voglio faccio proprio la mia porca figura di persona colta.
Abbiamo visto il Capitol.
E il monumento a Martin Luther King.
E quello alla guerra del Vietnam.
Abbiamo chiacchierato con i veterani. Sulle loro magliette c'è scritto "Every day is a bonus".
E hanno ragione.Si impara anche così, in una ventosa mattinata turistica a Washington.
E infine il lago artificiale, e sull'altra sponda il Jefferson memorial.
Altro tempio, altro premio.
Un'altra statua.
Un altro silenzio e un'altra riflessione.
Gli americani quando si impegnano mi strappano il cuore.

Abbiamo fatto foto, mangiato in un ristorante spagnolo, scoperto le vie lussuose della capitale.
Ci hanno offerto il gelato all'Hard Rock Cafè perchè eravamo internazionali.
Abbiamo fatto colazione col Washington post e il sole caldo in faccia.
Un ottantenne di nome Luigi, americano ma di origini spagnole ci ha chiesto se abbiamo partecipato a Miss Universo.
Abbiamo mangiato cinese alle quattro del mattino.
Abbiamo riso, ballato, bevuto qualche birra, sognato insieme.
Abbiamo condiviso tutto quello che si può condividere.
Il bello di questa esperienza e di questi viaggi è che ti avvicinano alle persone, di botto.
Così, di corsa, ti costringono ad aprirti, a farti vedere, a lasciarti scoprire.
Velocemente.
Senza aver tempo di pensare.
Ti legano agli altri in un modo che non accade spesso.
Quando sei catapultata in un altro mondo, con un'altra lingua, senza nessun appoggio, sei più vulnerabile.
E trovare qualcuno che ti copra le spalle è una sensazione meravigliosa.


E poi nulla, abbiamo fatto qualche foto con le attrazioni locali.
(Possiamo fare una foto con voi? EH? Roba che manco le quattordicenni con Justin Bieber. Ma tant'è.)

Annuso, respiro, tocco, spio, ascolto e assaggio.

Avrei voluto sistemare la mia camera molto prima, stasera.
Avrei voluto fare la doccia molto prima.
Avrei voluto avere il tempo di scrivere un post epico su Washignton, stasera.
Avrei voluto scrivere un pezzo da premio Pulitzer.
E invece.
E invece sono le due di notte, sono stanca morta ma sono troppo eccitata per dormire.
Una giornata lunghissima, ma piena di dettagli che l'hanno resa intensa.
Gesti, parole, sguardi. Risate. Stupidaggini.
Soprattutto parole.
La soddisfazione di far parte di un lavoro di gruppo, esprimere le mie idee e vedere che gli altri le apprezzano. Non nella mia lingua.
Non avete idea della goduria.
Una cena che poteva essere solitaria, ma che è finita con due risate e una creazione di frutta e cioccolato.
Perchè qui incontri chiunque e sono tutti felici di vederti.
Gli occhi sorridono.
Sono curiosi, indagatori, sinceri.
Le persone hanno voglia di parlare, di condividere, di sapere.
Sono come bambini a cui mostri per la prima volta la televisione.
Ti guardano con la stessa curiosità di un bambino. Quella sincera, quella autentica.
E conoscere per loro e per me non è mai stato così bello e appagante.

Oggi la mamma di Marina ha dedicato a me lei e Sara un pezzo di canzone, in italiano.
Niente di ciò che verrà domani
Sará com'è già stato ieri
Tutto passa tutto sempre passerà
La vita, come un'onda come il mare
In un va e viene infinito
Quel che poi vedremo è
Diverso da ciò che abbiamo visto ieri
Tutto cambia, il tempo tutto nel mondo
Non serve a niente fuggire
Nè mentire a se stesso
Amore, se hai ancora un posto nel cuore
Mi ci tuffo dentro
Come fa un'onda del mare.

Volevo piangere, lo giuro.
La cosa più dolce del mondo.
La mia anima da drama queen mi porta a lacrimare ogni due per tre, chi mi conosce lo sa.
(Purtroppo per lui)

E poi niente, io e Sara abbiamo prenotato il volo per Chicago durante il Thanksgiving break.
Non riesco nemmeno a spiegare cosa si sta muovendo nel mio stomaco dall'eccitazione.
Vorrei partire domani ma allo stesso tempo voglio godermi ogni giorno qui.
Il tempo vola, tra un mese e mezzo dovrò salutare tutti e mi si spezza il cuore.
Diciamo che il Natale a NY mi distrarrà a dovere, eh.
Ma lascerò un gran pezzo di cuore in questa modesta e sconosciuta capitale americana.
Oggi stavo pensando a cosa mi mancherà.
Bene, adesso vi tocca sorbirvi la lista.
Adoro le liste.

Mi mancherà avere appesa al collo la mia SUNY card e le mie chiavi.
Mi mancherà Mary, la dolcissima vecchina che al mattino sta all'entrata della dining hall e mi dice sempre "goodmorning honey".
Mi mancherà il "I'll grab a coffee" prima delle lezioni e dello studio in biblioteca.
Mi mancherà pure la puzza di fritto che mi si appiccica addosso ogni santa volta che metto piede nella dining hall.
Mi mancherà il mio letto, la mia scrivania, la mia stanzetta striminzita, vecchiotta e oldfashioned.
Mi mancherà bussare alla porta delle ragazze quando sono annoiata.
Mi mancherà la WTs, Barleys, il Pearl Street pub, De Johns e tutti i posti dove andiamo di solito.
Mi mancherà l'odore di caffè che si sente al mattino.
Mi mancherà la tazza di carta bollente da stringere con entrambe le mani per scaldarsi.
Mi mancherà Washington park.
Mi mancherà il CVS, Price Chopper, Walmart e soprattutto quel paradiso che è il Crossgates mall.
Mi mancherà lo shuttle con i sedili imbottiti al mattino (quando sarò sulla 94 a Milano).
Mi mancherà il suono della risata di Sara e l'espressione di Marina quando sta per ridere.
Mi mancheranno le confidenze con Alice.
Mi mancherà viaggiare in giro per gli States con un borsone e la voglia vivere negli occhi, nello stomaco e nelle vene.
Mi mancherà l'odore di casa che mi è entrato nel naso e non se ne vuole andare.
Mi mancherà il mio cestino con le cose per la doccia.
Mi mancherà dire "Bitch please" ogni tre parole.
Mi mancherà ascoltare "Chicken Fried" il giovedì sera alla WTs.
Mi mancherà il suono di come la gente pronuncia "Hey wassup".
Mi mancherà capire ormai (quasi) tutto di cosa dicono i professori a lezione e le mie serie preferite.
Mi mancherà pure dire "What?" almeno tre o quattro volte quando parlo con i miei amici inglesi e irlandesi, e secondo come fare finta di aver capito alla quarta volta e ridacchiare nervosamente.
Mi mancheranno i quattro isolati a piedi fino al supermercato, ogni volta percorsi col naso all'insù a guardare le case o le foglie degli alberi.
Mi mancheranno le cene in pigiama, che sanno di amici, di calore, di parole e di angoli della bocca piegati all'insù.
Mi mancherà la sensazione di essere straniera ma un pò adottata.
Mi mancherà il senso di appartenenza a questa università il giallo e il viola, leggere USA Today al mattino come se fosse Repubblica.
Mi mancheranno i cereali con lo yogurt.
I waffles.
I quarantamila tipi di cookies e pringles.
Mi mancheranno un pò meno i vicini che corrono i skateboard alle quattro di notte per il corridoio.
Mi mancherà un pò meno il bagno in comune, in effetti.

Mi mancherà soprattutto la sensazione di essere parte di qualcosa, di qualcuno. Si essere entrata nella pelle delle persone che ho conosciuto nello stesso modo in cui loro sono entrate nella mia.
Mi mancherà tutto quello che vedo, ascolto, respiro, gusto e tocco ogni giorno.
Mi mancherà tutto quello che ho stampato in mente, negli occhi, nel naso.
Mi mancherà ogni minuto vissuto dall'altra parte del mondo.
Mi mancherà la sensazione di essere così viva, potente, vibrante.

Mi mancherà il mio angolo di America.