domenica 30 ottobre 2011

Un giorno in più..e tutto cambia.

I tecnici Fastweb che latitano mi impediscono di dare voce alle baggianate che mi passano per la testa durante la settimana. Ma sì, è nel weekend che riesco a liberare il mio esercito di pensieri e a stiparlo bene qui sopra.
Comunque.
Stavo riflettendo, alcuni giorni fa, nel dormiveglia, sprofondando in uno di quei momenti di follia acuta, sulla morte.

Ma no, non in modo così macabro, giuro.
Però ho vissuto una settimana circondata da immagini di un ragazzo riccioluto e sorridente, con un accento simpatico, che aveva appena tre e dico TRE anni più di me, che da un momento all'altro ha perso la vita.
Allegro, un accento tutto da strapazzare, dei ricci da prendere in giro.
Un  minuto scherza, e l'altro via, chissà dove. 

Di sicuro non qui, perchè tutti ne sentono la mancanza. 
Eppure io, deficiente (nel senso di deficere) di sport, avevo forse ma dico forse sentito il suo nome citato da qualche parte.
Ma ciò non mi ha impedito di andare a vedere il video dell'incidente, con una curiosità morbosa di cui ovviamente mi vergogno, i servizi al telegiornale e addirittura uno spezzone del funerale in diretta (ma quello solo per la morbosità della mia coinquilina), con annesse lacrime spazzate via con la mano e riflessioni su come sia sbagliato e tutto ciò che ne viene.

Fatto sta, la morte in diretta fa sempre la sua porca figura.
Scusate i termini, ma non c'è niente di più vero.
Forse perchè è un modo di sfatarla, o per allontanare la nostra paura, per lo stesso motivo per cui rischiamo un incidente fermandoci per vedere il vero incidente.

Ma volevo arrivare ad un punto.
Io sono tremendamente dispiaciuta per Marco, Sic, la sua passione e la sua vita spezzata.
Non riesco a immaginare il dolore di nessuno, io probabilmente non lo supererei.
E queste tre parole in croce dimostrano quanto banale sia quello che ho da dire.
Ma quello che mi incrina il sorriso triste, quello che stona in tutto questo dolore e in questo affetto nel ricordarlo, è la polemica.
La polemica di chi parla di ipocrisia, di chi parla di ossessione, di chi parla di ingiustizie.
Perchè l'opinione pubblica si è ovviamente spaccata in due, senza spazio alle sfumature.
Da una parte chi ancora piange pensando a Marco, chi ama ricordarlo, chi pubblica foto ogni giorno sui social networks, e dall'altra chi ritiene tutto una farsa, un'ipocrisia, un'esagerazione e si batte per dare voce alle vittime del terremoto in Turchia, alla scomparsa dell'inventore del pacemaker
   e di una simpatica signora che ha salvato migliaia di bambini ai tempi della seconda guerra mondiale, Irena Sendler.

Il risultato?
La gente SI BATTE per dare voce ai morti.

Ora, seguendo un mio percorso logico, tutto questo mi sembra assurdo.
Perchè tutto cade nel personale.
Invece che commemorare, o al massimo lasciare spazio alle notizie, farle circolare, ci battiamo in una gara senza fine per trovare un personaggio importante da citare, per sfatare il mito del funerale con moto di Simoncelli, o degli Apple stores ridotti ad altari per Steve Jobs.

E tutto questo smette di riguardare loro, che ci hanno lasciato (e probabilmente sbuffano e ridono ovunque siano adesso), e inizia a riguardare noi.
Noi, che vogliamo avere ragione.
Noi che piuttosto vorremmo pubblicare la fotografia di Juhnil, l'orso polare morto l'anno scorso dopo aver salvato almeno trenta cuccioli, per avere una decina di retweet e qualche "i like it" su Facebook.
Perchè non basta più avere la possibilità di vedere le notizie in televisione, in radio, sui giornali, e commentarle a voce, insieme.
Per sentirsi completi bisogna avere ragione.

E trasformare le morti in armi di battaglia in questa retorica senza fine.
E, come in ogni battaglia, ci si schiera. O nelle foto ricciolute, o in chi ritiene sia tutta un'ipocrisia.
Non c'è una via di mezzo.
Un "si forse bisognerebbe lasciare in pace i genitori di Marco, e mediatizzare meno un evento così triste, e dare spazio anche alle vittime "civili", silenziose, che non hanno concerti con la musica di Vasco alla fine".
Un'opinione, un "sì è vero ma..", un commento.
Non c'è spazio per questo, ma solo per una grande polemica.
E questo sì, che mi mette tristezza.



Ma poi un pò sorrido. 
Perchè nel mio strambo modo di vedere le cose, magari Steve Jobs sta facendo girogirotondo per mano a Simoncelli, facendo ridere i bambini Turchi con le Apps dell'Ipad, Irena e tutti i suoi bambini salvati che giocano ad Angry Birds e Greatbatch che si fa crescere i ricci come Sic.
E tutti si fanno grasse risate di noi che qui sprechiamo il nostro tempo a polemizzare. 


sabato 22 ottobre 2011

Che sapore ha la serenità?

Eh. Che sapore ha?
Perchè a me pare qualcosa di dolce, di avvolgente. Ma allo stesso tempo qualcosa di speziato, di pungente, di inebriante. Qualcosa che avvolge e inebria, ecco.
Qualcosa che senti con la punta della lingua, che si sparge per tutto il tuo corpo.
E non sono nemmeno sicura di averla gustata abbastanza.
A volte è solo un pizzico sulla punta della lingua, raramente è una boccata piena.
Uno di quei gusti che sai di apprezzare, ma che non riesci bene a focalizzare, se ci ripensi.

E io riesco a focalizzarlo più intensamente a volte, molto meno altre.
Ci siamo mai chiesti, cosa vuol dire essere sereni?

Ci siamo mai fermati qualche minuto a realizzare quali sono gli ingredienti, per la serenità?
O forse la serenità arriva solo quando non si è ossessionati dalla sua ricerca?

Può darsi.
Eppure non posso fare a meno di chiedermelo. 
Soprattutto nei momenti in cui riesco ad assaporarla con la punta della lingua.
Perchè si, ne voglio di più.

Ne voglio ancora, voglio che non finisca mai.
Voglio ubriacarmi di serenità.

Eppure, silenziosa com'è arrivata, se ne va. 
E tu rimani così, con ancora quel sapore in bocca, ma che dopo qualche attimo è già svanito.
Perchè infondo, cosa conta più della serenità?

I soldi, l'amore, la salute, i viaggi..tutto è una somma, tutto è un mezzo per arrivare all'obiettivo finale: vivere serenamente.
E lottiamo ogni giorno per questo.
E fatichiamo, per questo.
Arriviamo anche a strapparci i capelli, per quell'attimo di serenità che ci spetta.

Ecco, io oggi il mio attimo di serenità l'ho assaporato con tutte le cellule del mio corpo: una giornata di sole, fredda, tersa, ventosa. Ho tirato le tende, la spiaggia deserta e il mare calmo e piatto a darmi il buongiorno. La casa silenziosa. Il profumo del caffè appena fatto, una spremuta e una fetta di torta fatta in casa.
Colazione davanti alla lettura delle notizie del giorno, un sorriso davanti alla Playlist dei miei ultimi dieci anni di Vanity Fair.
Una commissione in centro, in macchina con qualche canzone canticchiata sottovoce.
Ed eccola qui, la mia mattinata di serenità.

Eppure, schiocco la lingua sul palato, e ora sta già svanendo.. 

venerdì 14 ottobre 2011

Qualche ora alla Fnac..

Ore 18. In una Milano tipicamente autunnale, che si appresta a finire la propria giornata.
Io e Elena siamo lì. In quella stanzetta della Fnac, sedute a terra, e la presentazione inizia. Silvio entra, e si prepara per l'intervista, senza la sue altre due "mani", quelle di Carla, che non è presente.
E via, si parla. Si parla di adolescenza, di ribellioni, di rivoluzione e di pazzia.
Quante belle parole tutte insieme.
Adolescenza, un corpo che sboccia, ma soprattutto una mente che sboccia. Nessuna certezza, se non la consapevolezza di avere tutto il mondo davanti a sè.
Ribellioni, cose che esplodono, che ricordano l'energia, la voglia di fare, di lottare. Rivoluzione, quella che ti scoppia dentro, che spazza via il vecchio e lascia posto al nuovo. Che porta una ventata di aria fresca, e da la forza per ricominciare.
Pazzia, nessuno bene sa ancora come definirla, nessuno ancora sa di possederla oppure no, così temuta eppure così desiderata.
Parole belle, che suonano bene, piene di significato, belle per tutti.
Sia per chi è adolescente, sia per chi lo è quasi, sia per chi dall'adolescenza ne è appena uscito (con un sospiro di sollievo o una lacrima, dipende), sia per chi l'adolescenza l'ha vissuta anni fa e la ricorda con un miscuglio di malinconia e tenerezza.
Tra battute, risate, e ricordi, Silvio ricorda la sua, di adolescenza, che si intreccia con quella di Matteo e di Sofia.
E tutti, in quella stanza, ci siamo sentiti un pò Matteo, un pò Sofia.
La brillantezza di Rivoluzionen9 sta nell'aver portato a galla, in un libro semplice, scorrevole e piacevole, uno dei temi più difficili, scostanti e incomprensibili della vita: il momento in cui capisci di fare parte del mondo, di essere un'entità autonoma, in cui i tuoi pensieri si delineano e tutto appare nuovo, come se nei quindici anni precedenti avessi vissuto nell'universo delle favole.

Matteo e Sofia sono tutti noi. Noi spogliati di tutte le maschere che abbiamo usato nella nostra adolescenza, noi spogliati delle nostre arroganze e dei nostri gusci che ci hanno protetti, dietro i quali ci nascondevamo mentre prendevamo tempo, per riuscire a capire che diavolo fossimo, cosa volessimo e soprattutto cosa
 diamine il mondo volesse da noi. 
E anche se fa un pò paura leggersi, vedersi lì, stampati su quelle pagine senza alcuna protezione, ci si sente parte di qualcosa. Di un processo che nessuno si scampa.
Di alcune paure, di un terrore che tutti hanno avuto, che tutti abbiamo avuto o che addirittura tutti abbiamo ancora, sotto sotto.

Perchè è così, io ogni tanto avrei solo voglia di chiudermi la porta forte alle spalle come fa Matteo con la musica a tutto volume, e ho paura di impazzire, e si, vorrei essere pazza e libera. E ogni tanto vorrei rifugiarmi dalla nonna, mettermi il pigiama rosa e farmi fare le carte. E vorrei avere avuto un Daniele tutto per me, un idolo.

E ci si sente meno soli, ci si culla dentro la convinzione che non si è gli unici ad aver vissuto tutto questo. Rivoluzinen9 ha colto tutto, tutti gli aspetti più sfuggenti di quando si passa dall'essere bambini all'essere adulti, così, da un giorno all'altro, senza nemmeno sapere perchè. Senza un avviso, senza nulla.
A sedici anni ti senti solo, ti senti stretto nel tuo corpo e vorresti cambiare, ma appena cambi vorresti tornare indietro, nella tua tana calda e sicura. Eppure non puoi.
E hai bisogno di una spinta, per andare avanti.
E Rivoluzionen9 dà questa spinta, anche a chi ormai l'adolescenza l'ha superata da un pò.


Mentre scorro le pagine, sorrido. Sorrido di malinconia e di tenerezza.
E sorrido in unico pensiero: "sì, sono proprio io".
Leggendo mi sembra di rivivere la mia rivoluzione, la mia ribellione, di esplodere di nuovo, c'è qualcosa in quelle pagine che riporta fuori tutta l'energia e la voglia di cambiare dell'adolescenza.
E mi fa sentire meno sola.



Anche mentre Silvio parla, e spiega, (anche se purtroppo senza Carla) c'è qualcosa in tutti noi che ci unisce, che ci rasserena e ci rende tutti complici, in un passaggio che abbiamo vissuto. Di una tappa che anche a distanza di anni, tutti abbiamo condiviso.

E così, per un attimo, ci si sente parte di qualcosa. Di qualcosa più grande di noi.

Grazie, Rivoluzionen9, per portato fuori la mia, di rivoluzione.
Forse la sto vivendo ancora adesso, forse non si smette mai.


venerdì 7 ottobre 2011

Sincerità, o ingenuità?

Crogiolandomi in questa prima vera giornata di autunno, con il mio fidato aerosol di fianco al pc, mi delizio con Ludovico Einaudi. Mmmh.
Ho amato questa giornata ventosa, assolata ma con i suoi soffi di vento pungenti, i primi che sussurrano l'arrivo dell'autunno, di qualcosa di nuovo, che si porterà via l'estate, l'afa, tutto ciò che di caldo e appiccicoso è rimasto, che ci ingombra e ci fa sentire goffi.
Stavo riflettendo su di un discorso che mi ha fatto l'Amica, qualche giorno fa.
Ed è stato uno di quei discorsi da secchiata d'acqua in faccia.
Uno di quei discorsi in cui ti senti presa a schiaffi dalla vita.
Come quando ti dicono che Babbo Natale non esiste.
Comunque, lei sostiene che nessuno sia mai sincero. 
Che anche la persona più onesta e fidata, nasconde qualcosa.
Alle persone che ama, ovviamente.
Nel rispetto degli altri, ma si nasconde qualcosa.
Qualche pensiero, qualche gesto, qualche sguardo.
E che le cose funzionano così.
Sono sempre andate così e andranno per sempre così.
Quindi è inutile che io mi crogioli nel senso di colpa e nell'autocommiserazione se nascondo una parola a mia madre, un pettegolezzo ad un'amica, o se la moglie nasconde una risata innocente al marito.
In inglese le chiamano white lies. 
Bugie a fin di bene.
Piccole omissioni, che il mondo fa ogni giorno per il quieto vivere.
Eppure, c'è qualcosa di sporco in tutto questo.
Ma lo vedo solo io?
E io che ho sempre creduto che le relazioni di ogni tipo si basassero sull'onestà.
E lei che mi risponde che non è mancanza di onestà, ma amore.
Omettere qualcosa per amore dell'altro.
Per vivere sereni.
Per non fare impazzire di preoccupazione la madre.
O di irritazione l'amica.
O di gelosia il marito.
Ma funziona davvero così?
E le poche persone che ancora non lo sanno e sono totalmente linde, pure, anime candide, se la prendono in quel posto?
Qualcosa mi dice di si.

Eppure, io continuo a pensarla a modo mio.
E mi sento irrequieta, come al solito.
Forse perchè la serenità in me non esiste. 

giovedì 6 ottobre 2011

Del caffè, del tè freddo e i placebo.

In questa pausa dalle lezioni, sono nella mia cucina bianca, sul mio tavolo bianco, con di fronte una parete bianca.
Questa casa dall'aspetto poco abitato sarà la mia umile dimora per più di metà anno. Quindi, ci si adatta.
Comunque, stamattina un pò assonnata mi collego dal mio I-phone (che devo ancora finire di pagare) mentre vado in università, ancora un pò assonnata, con la matita nera sugli occhi che già cola e il passo agile di una gazzella zoppa.
E scorro ovviamente la mia pagina di facebook, tossica di tecnologia e social networks come sono.
La mia home è inondata di "Stay hungry, stay foolish", video di Steve Jobs sul suo discorso del 2005 a Stanford, parole d'amore. E allora capisco, è morto.
E il cervello è andato oltre al dispiacere, alle commemorazioni di oggi che domani saranno solo messaggi di ieri, storia.
(Nonostante il motto di dispiacere, di vuoto, seppur lontano, incomprensibile, aleggi nella mia testa)
E' andato alla fine di un'era, in un certo senso.
O all'inizio di un'altra.
Di un'eredità lasciata a noi, a noi giovani, che ancora non ci rendiamo conto molto bene che il suo motto, la sua raccomandazione, non sono solo quattro parole che stanno bene insieme, che suonano bene e sono perfette come tweet o stato di facebook, o sono un bel pensiero.
Sono un modo di vivere, uno stato mentale,  che non va pensato dieci minuti al giorno, e poi si torna a fare il minimo indispensabile.
Non credo che Steve abbia fatto il minimo indispensabile, per arrivare dov'è. Dov'era.
Per fare il proprio lavoro, per seguire le lezioni all'università, per prendere un 18 e festeggiare.
E' sapersi prendere la vita che si vuole.
E' lottare, per quello che si vuole.
Fare in modo di andarsi a prendere il lavoro che si sogna, di trovarlo, di non accontentarsi.
E condivido pienamente tutto questo.
In un paese dove il tasso di disoccupazione giovanile è altissimo, dove si alza l'età pensionabile sempre di più ma i giovani, le menti fresche e innovative di oggi, che hanno tanto da dare quanto da imparare, forzalavoro che potrebbe dare il massimo, vengono lasciati fuori, indietro, per poi iniziare a lavorare seriamente a quarantanni e andare in pensione a sessanta, non dobbiamo aspettarcelo dai politici, il cambiamento.
Nè dai nostri genitori, o dagli insegnanti, o dai datori di lavoro.
Per cambiare le cose, ci vogliamo noi.
Quindi Steve, mi piacerebbe proprio essere il genio che inventerà l'innovazione del decennio, del secolo, riempirmi di soldi, essere realizzata e avere una famiglia stupenda.
Ma chiedo anche di meno, e mi piacerebbe sapere di fare qualcosa di bello, di grande nel mio piccolo, ogni giorno.
Hai cambiato il mondo, è vero, e probabilmente senza di te stamattina non avrei potuto leggere la notizia della tua morte sul mio I-phone. (La cosa si sta facendo contorta.)
Ma credo che da te si dovrebbe imparare la tenacia, la passione, la voglia di cambiare e l'entusiasmo di fare, oltre che il genio.
Quello però, purtroppo, credo che non si possa imparare.
Ci piace così tanto parlare di grandi ideali, di grandi passioni che muovono gli animi, di sogni lontani e desiderio di gloria, ma tutte queste belle parole rimangono nei nostri cassetti, un pò impolverate e malinconiche.
Quindi, che le tue parole, Stewie (non me ne volere), siano molto più che un motto. Ma un modo di vivere.
E oggi, prenditi i tweet del mondo intero per salutarti, e gongola un pò.

Un giorno in più..e tutto cambia.

I tecnici Fastweb che latitano mi impediscono di dare voce alle baggianate che mi passano per la testa durante la settimana. Ma sì, è nel weekend che riesco a liberare il mio esercito di pensieri e a stiparlo bene qui sopra.
Comunque.
Stavo riflettendo, alcuni giorni fa, nel dormiveglia, sprofondando in uno di quei momenti di follia acuta, sulla morte.

Ma no, non in modo così macabro, giuro.
Però ho vissuto una settimana circondata da immagini di un ragazzo riccioluto e sorridente, con un accento simpatico, che aveva appena tre e dico TRE anni più di me, che da un momento all'altro ha perso la vita.
Allegro, un accento tutto da strapazzare, dei ricci da prendere in giro.
Un  minuto scherza, e l'altro via, chissà dove. 

Di sicuro non qui, perchè tutti ne sentono la mancanza. 
Eppure io, deficiente (nel senso di deficere) di sport, avevo forse ma dico forse sentito il suo nome citato da qualche parte.
Ma ciò non mi ha impedito di andare a vedere il video dell'incidente, con una curiosità morbosa di cui ovviamente mi vergogno, i servizi al telegiornale e addirittura uno spezzone del funerale in diretta (ma quello solo per la morbosità della mia coinquilina), con annesse lacrime spazzate via con la mano e riflessioni su come sia sbagliato e tutto ciò che ne viene.

Fatto sta, la morte in diretta fa sempre la sua porca figura.
Scusate i termini, ma non c'è niente di più vero.
Forse perchè è un modo di sfatarla, o per allontanare la nostra paura, per lo stesso motivo per cui rischiamo un incidente fermandoci per vedere il vero incidente.

Ma volevo arrivare ad un punto.
Io sono tremendamente dispiaciuta per Marco, Sic, la sua passione e la sua vita spezzata.
Non riesco a immaginare il dolore di nessuno, io probabilmente non lo supererei.
E queste tre parole in croce dimostrano quanto banale sia quello che ho da dire.
Ma quello che mi incrina il sorriso triste, quello che stona in tutto questo dolore e in questo affetto nel ricordarlo, è la polemica.
La polemica di chi parla di ipocrisia, di chi parla di ossessione, di chi parla di ingiustizie.
Perchè l'opinione pubblica si è ovviamente spaccata in due, senza spazio alle sfumature.
Da una parte chi ancora piange pensando a Marco, chi ama ricordarlo, chi pubblica foto ogni giorno sui social networks, e dall'altra chi ritiene tutto una farsa, un'ipocrisia, un'esagerazione e si batte per dare voce alle vittime del terremoto in Turchia, alla scomparsa dell'inventore del pacemaker
   e di una simpatica signora che ha salvato migliaia di bambini ai tempi della seconda guerra mondiale, Irena Sendler.

Il risultato?
La gente SI BATTE per dare voce ai morti.

Ora, seguendo un mio percorso logico, tutto questo mi sembra assurdo.
Perchè tutto cade nel personale.
Invece che commemorare, o al massimo lasciare spazio alle notizie, farle circolare, ci battiamo in una gara senza fine per trovare un personaggio importante da citare, per sfatare il mito del funerale con moto di Simoncelli, o degli Apple stores ridotti ad altari per Steve Jobs.

E tutto questo smette di riguardare loro, che ci hanno lasciato (e probabilmente sbuffano e ridono ovunque siano adesso), e inizia a riguardare noi.
Noi, che vogliamo avere ragione.
Noi che piuttosto vorremmo pubblicare la fotografia di Juhnil, l'orso polare morto l'anno scorso dopo aver salvato almeno trenta cuccioli, per avere una decina di retweet e qualche "i like it" su Facebook.
Perchè non basta più avere la possibilità di vedere le notizie in televisione, in radio, sui giornali, e commentarle a voce, insieme.
Per sentirsi completi bisogna avere ragione.

E trasformare le morti in armi di battaglia in questa retorica senza fine.
E, come in ogni battaglia, ci si schiera. O nelle foto ricciolute, o in chi ritiene sia tutta un'ipocrisia.
Non c'è una via di mezzo.
Un "si forse bisognerebbe lasciare in pace i genitori di Marco, e mediatizzare meno un evento così triste, e dare spazio anche alle vittime "civili", silenziose, che non hanno concerti con la musica di Vasco alla fine".
Un'opinione, un "sì è vero ma..", un commento.
Non c'è spazio per questo, ma solo per una grande polemica.
E questo sì, che mi mette tristezza.



Ma poi un pò sorrido. 
Perchè nel mio strambo modo di vedere le cose, magari Steve Jobs sta facendo girogirotondo per mano a Simoncelli, facendo ridere i bambini Turchi con le Apps dell'Ipad, Irena e tutti i suoi bambini salvati che giocano ad Angry Birds e Greatbatch che si fa crescere i ricci come Sic.
E tutti si fanno grasse risate di noi che qui sprechiamo il nostro tempo a polemizzare. 


Che sapore ha la serenità?

Eh. Che sapore ha?
Perchè a me pare qualcosa di dolce, di avvolgente. Ma allo stesso tempo qualcosa di speziato, di pungente, di inebriante. Qualcosa che avvolge e inebria, ecco.
Qualcosa che senti con la punta della lingua, che si sparge per tutto il tuo corpo.
E non sono nemmeno sicura di averla gustata abbastanza.
A volte è solo un pizzico sulla punta della lingua, raramente è una boccata piena.
Uno di quei gusti che sai di apprezzare, ma che non riesci bene a focalizzare, se ci ripensi.

E io riesco a focalizzarlo più intensamente a volte, molto meno altre.
Ci siamo mai chiesti, cosa vuol dire essere sereni?

Ci siamo mai fermati qualche minuto a realizzare quali sono gli ingredienti, per la serenità?
O forse la serenità arriva solo quando non si è ossessionati dalla sua ricerca?

Può darsi.
Eppure non posso fare a meno di chiedermelo. 
Soprattutto nei momenti in cui riesco ad assaporarla con la punta della lingua.
Perchè si, ne voglio di più.

Ne voglio ancora, voglio che non finisca mai.
Voglio ubriacarmi di serenità.

Eppure, silenziosa com'è arrivata, se ne va. 
E tu rimani così, con ancora quel sapore in bocca, ma che dopo qualche attimo è già svanito.
Perchè infondo, cosa conta più della serenità?

I soldi, l'amore, la salute, i viaggi..tutto è una somma, tutto è un mezzo per arrivare all'obiettivo finale: vivere serenamente.
E lottiamo ogni giorno per questo.
E fatichiamo, per questo.
Arriviamo anche a strapparci i capelli, per quell'attimo di serenità che ci spetta.

Ecco, io oggi il mio attimo di serenità l'ho assaporato con tutte le cellule del mio corpo: una giornata di sole, fredda, tersa, ventosa. Ho tirato le tende, la spiaggia deserta e il mare calmo e piatto a darmi il buongiorno. La casa silenziosa. Il profumo del caffè appena fatto, una spremuta e una fetta di torta fatta in casa.
Colazione davanti alla lettura delle notizie del giorno, un sorriso davanti alla Playlist dei miei ultimi dieci anni di Vanity Fair.
Una commissione in centro, in macchina con qualche canzone canticchiata sottovoce.
Ed eccola qui, la mia mattinata di serenità.

Eppure, schiocco la lingua sul palato, e ora sta già svanendo.. 

Qualche ora alla Fnac..

Ore 18. In una Milano tipicamente autunnale, che si appresta a finire la propria giornata.
Io e Elena siamo lì. In quella stanzetta della Fnac, sedute a terra, e la presentazione inizia. Silvio entra, e si prepara per l'intervista, senza la sue altre due "mani", quelle di Carla, che non è presente.
E via, si parla. Si parla di adolescenza, di ribellioni, di rivoluzione e di pazzia.
Quante belle parole tutte insieme.
Adolescenza, un corpo che sboccia, ma soprattutto una mente che sboccia. Nessuna certezza, se non la consapevolezza di avere tutto il mondo davanti a sè.
Ribellioni, cose che esplodono, che ricordano l'energia, la voglia di fare, di lottare. Rivoluzione, quella che ti scoppia dentro, che spazza via il vecchio e lascia posto al nuovo. Che porta una ventata di aria fresca, e da la forza per ricominciare.
Pazzia, nessuno bene sa ancora come definirla, nessuno ancora sa di possederla oppure no, così temuta eppure così desiderata.
Parole belle, che suonano bene, piene di significato, belle per tutti.
Sia per chi è adolescente, sia per chi lo è quasi, sia per chi dall'adolescenza ne è appena uscito (con un sospiro di sollievo o una lacrima, dipende), sia per chi l'adolescenza l'ha vissuta anni fa e la ricorda con un miscuglio di malinconia e tenerezza.
Tra battute, risate, e ricordi, Silvio ricorda la sua, di adolescenza, che si intreccia con quella di Matteo e di Sofia.
E tutti, in quella stanza, ci siamo sentiti un pò Matteo, un pò Sofia.
La brillantezza di Rivoluzionen9 sta nell'aver portato a galla, in un libro semplice, scorrevole e piacevole, uno dei temi più difficili, scostanti e incomprensibili della vita: il momento in cui capisci di fare parte del mondo, di essere un'entità autonoma, in cui i tuoi pensieri si delineano e tutto appare nuovo, come se nei quindici anni precedenti avessi vissuto nell'universo delle favole.

Matteo e Sofia sono tutti noi. Noi spogliati di tutte le maschere che abbiamo usato nella nostra adolescenza, noi spogliati delle nostre arroganze e dei nostri gusci che ci hanno protetti, dietro i quali ci nascondevamo mentre prendevamo tempo, per riuscire a capire che diavolo fossimo, cosa volessimo e soprattutto cosa
 diamine il mondo volesse da noi. 
E anche se fa un pò paura leggersi, vedersi lì, stampati su quelle pagine senza alcuna protezione, ci si sente parte di qualcosa. Di un processo che nessuno si scampa.
Di alcune paure, di un terrore che tutti hanno avuto, che tutti abbiamo avuto o che addirittura tutti abbiamo ancora, sotto sotto.

Perchè è così, io ogni tanto avrei solo voglia di chiudermi la porta forte alle spalle come fa Matteo con la musica a tutto volume, e ho paura di impazzire, e si, vorrei essere pazza e libera. E ogni tanto vorrei rifugiarmi dalla nonna, mettermi il pigiama rosa e farmi fare le carte. E vorrei avere avuto un Daniele tutto per me, un idolo.

E ci si sente meno soli, ci si culla dentro la convinzione che non si è gli unici ad aver vissuto tutto questo. Rivoluzinen9 ha colto tutto, tutti gli aspetti più sfuggenti di quando si passa dall'essere bambini all'essere adulti, così, da un giorno all'altro, senza nemmeno sapere perchè. Senza un avviso, senza nulla.
A sedici anni ti senti solo, ti senti stretto nel tuo corpo e vorresti cambiare, ma appena cambi vorresti tornare indietro, nella tua tana calda e sicura. Eppure non puoi.
E hai bisogno di una spinta, per andare avanti.
E Rivoluzionen9 dà questa spinta, anche a chi ormai l'adolescenza l'ha superata da un pò.


Mentre scorro le pagine, sorrido. Sorrido di malinconia e di tenerezza.
E sorrido in unico pensiero: "sì, sono proprio io".
Leggendo mi sembra di rivivere la mia rivoluzione, la mia ribellione, di esplodere di nuovo, c'è qualcosa in quelle pagine che riporta fuori tutta l'energia e la voglia di cambiare dell'adolescenza.
E mi fa sentire meno sola.



Anche mentre Silvio parla, e spiega, (anche se purtroppo senza Carla) c'è qualcosa in tutti noi che ci unisce, che ci rasserena e ci rende tutti complici, in un passaggio che abbiamo vissuto. Di una tappa che anche a distanza di anni, tutti abbiamo condiviso.

E così, per un attimo, ci si sente parte di qualcosa. Di qualcosa più grande di noi.

Grazie, Rivoluzionen9, per portato fuori la mia, di rivoluzione.
Forse la sto vivendo ancora adesso, forse non si smette mai.


Sincerità, o ingenuità?

Crogiolandomi in questa prima vera giornata di autunno, con il mio fidato aerosol di fianco al pc, mi delizio con Ludovico Einaudi. Mmmh.
Ho amato questa giornata ventosa, assolata ma con i suoi soffi di vento pungenti, i primi che sussurrano l'arrivo dell'autunno, di qualcosa di nuovo, che si porterà via l'estate, l'afa, tutto ciò che di caldo e appiccicoso è rimasto, che ci ingombra e ci fa sentire goffi.
Stavo riflettendo su di un discorso che mi ha fatto l'Amica, qualche giorno fa.
Ed è stato uno di quei discorsi da secchiata d'acqua in faccia.
Uno di quei discorsi in cui ti senti presa a schiaffi dalla vita.
Come quando ti dicono che Babbo Natale non esiste.
Comunque, lei sostiene che nessuno sia mai sincero. 
Che anche la persona più onesta e fidata, nasconde qualcosa.
Alle persone che ama, ovviamente.
Nel rispetto degli altri, ma si nasconde qualcosa.
Qualche pensiero, qualche gesto, qualche sguardo.
E che le cose funzionano così.
Sono sempre andate così e andranno per sempre così.
Quindi è inutile che io mi crogioli nel senso di colpa e nell'autocommiserazione se nascondo una parola a mia madre, un pettegolezzo ad un'amica, o se la moglie nasconde una risata innocente al marito.
In inglese le chiamano white lies. 
Bugie a fin di bene.
Piccole omissioni, che il mondo fa ogni giorno per il quieto vivere.
Eppure, c'è qualcosa di sporco in tutto questo.
Ma lo vedo solo io?
E io che ho sempre creduto che le relazioni di ogni tipo si basassero sull'onestà.
E lei che mi risponde che non è mancanza di onestà, ma amore.
Omettere qualcosa per amore dell'altro.
Per vivere sereni.
Per non fare impazzire di preoccupazione la madre.
O di irritazione l'amica.
O di gelosia il marito.
Ma funziona davvero così?
E le poche persone che ancora non lo sanno e sono totalmente linde, pure, anime candide, se la prendono in quel posto?
Qualcosa mi dice di si.

Eppure, io continuo a pensarla a modo mio.
E mi sento irrequieta, come al solito.
Forse perchè la serenità in me non esiste. 

Del caffè, del tè freddo e i placebo.

In questa pausa dalle lezioni, sono nella mia cucina bianca, sul mio tavolo bianco, con di fronte una parete bianca.
Questa casa dall'aspetto poco abitato sarà la mia umile dimora per più di metà anno. Quindi, ci si adatta.
Comunque, stamattina un pò assonnata mi collego dal mio I-phone (che devo ancora finire di pagare) mentre vado in università, ancora un pò assonnata, con la matita nera sugli occhi che già cola e il passo agile di una gazzella zoppa.
E scorro ovviamente la mia pagina di facebook, tossica di tecnologia e social networks come sono.
La mia home è inondata di "Stay hungry, stay foolish", video di Steve Jobs sul suo discorso del 2005 a Stanford, parole d'amore. E allora capisco, è morto.
E il cervello è andato oltre al dispiacere, alle commemorazioni di oggi che domani saranno solo messaggi di ieri, storia.
(Nonostante il motto di dispiacere, di vuoto, seppur lontano, incomprensibile, aleggi nella mia testa)
E' andato alla fine di un'era, in un certo senso.
O all'inizio di un'altra.
Di un'eredità lasciata a noi, a noi giovani, che ancora non ci rendiamo conto molto bene che il suo motto, la sua raccomandazione, non sono solo quattro parole che stanno bene insieme, che suonano bene e sono perfette come tweet o stato di facebook, o sono un bel pensiero.
Sono un modo di vivere, uno stato mentale,  che non va pensato dieci minuti al giorno, e poi si torna a fare il minimo indispensabile.
Non credo che Steve abbia fatto il minimo indispensabile, per arrivare dov'è. Dov'era.
Per fare il proprio lavoro, per seguire le lezioni all'università, per prendere un 18 e festeggiare.
E' sapersi prendere la vita che si vuole.
E' lottare, per quello che si vuole.
Fare in modo di andarsi a prendere il lavoro che si sogna, di trovarlo, di non accontentarsi.
E condivido pienamente tutto questo.
In un paese dove il tasso di disoccupazione giovanile è altissimo, dove si alza l'età pensionabile sempre di più ma i giovani, le menti fresche e innovative di oggi, che hanno tanto da dare quanto da imparare, forzalavoro che potrebbe dare il massimo, vengono lasciati fuori, indietro, per poi iniziare a lavorare seriamente a quarantanni e andare in pensione a sessanta, non dobbiamo aspettarcelo dai politici, il cambiamento.
Nè dai nostri genitori, o dagli insegnanti, o dai datori di lavoro.
Per cambiare le cose, ci vogliamo noi.
Quindi Steve, mi piacerebbe proprio essere il genio che inventerà l'innovazione del decennio, del secolo, riempirmi di soldi, essere realizzata e avere una famiglia stupenda.
Ma chiedo anche di meno, e mi piacerebbe sapere di fare qualcosa di bello, di grande nel mio piccolo, ogni giorno.
Hai cambiato il mondo, è vero, e probabilmente senza di te stamattina non avrei potuto leggere la notizia della tua morte sul mio I-phone. (La cosa si sta facendo contorta.)
Ma credo che da te si dovrebbe imparare la tenacia, la passione, la voglia di cambiare e l'entusiasmo di fare, oltre che il genio.
Quello però, purtroppo, credo che non si possa imparare.
Ci piace così tanto parlare di grandi ideali, di grandi passioni che muovono gli animi, di sogni lontani e desiderio di gloria, ma tutte queste belle parole rimangono nei nostri cassetti, un pò impolverate e malinconiche.
Quindi, che le tue parole, Stewie (non me ne volere), siano molto più che un motto. Ma un modo di vivere.
E oggi, prenditi i tweet del mondo intero per salutarti, e gongola un pò.