domenica 30 dicembre 2012

Vaneggiamenti aerei

Da vera poetessa di alto spessore culturale, mentre Lui si scoppiava un film da Oscar in stile fantascientifico sull'aereo, ho scritto questo post nelle note, promettendomi di pubblicarlo non appena arrivata. Tutto vostro.

Dopo quattro mesi e dieci giorni, di nuovo su un volo Delta.

Sembra ieri.
Seduta vicino ad un'americana che ha mangiato tutto il suo cibo più quello del marito, tanto che volevo offrirle pure il mio budino. 
Da sola, spaventata e elettrizzata allo stesso tempo.
Sembra ieri e invece é oggi e sto già tornando indietro. 
Io e praticamente un infante. 
8 chili tondi tondi.
Diciamo che quest'America mi rimarrá addosso per un bel pó.
Una settimana fa ho detto addio ad Albany.
Come al solito, sembrava che mi avessero anestetizzata.
Qualche giorno prima, salutando Marina, avevo i lacrimoni come i bimbi quando diventano tutti rossi e bramano il ciuccio.
Quando é toccato a me tutto é volato col tasto forward. 
La mattina della mia partenza me la ricordo come passata in un soffio.
Un attimo prima ero nelle mie lenzuola zebrate a ronfare allegramente e un momento dopo ero sul taxi. In mezzo ci sono state due ore di lotta contro il tempo e lo spazio.
Diciamo che quattro mesi di vita se sei me hanno bisogno di tanta roba.
Se poi hai dei problemi a controllarti quando vai al mall, ancora di più.
Ho dovuto abbandonare a Marina, nell'ordine: la mia borsa dell'acqua calda, la brocca per scaldare l'acqua, le lenzuola, le coperte, il cuscino, duemila attaccapanni e le mie preziose salviette per il sedere dei bimbi.
E nonostante l'abbandono le mie due valige avevano lo stesso il peso specifico del piombo. 
Un grazie a Stephen che se le é trascinate giù dalle scale.
Rischiando l'ernia ad ogni passo.

Insomma.
Ho chiuso la porta della mia stanza velocemente, un ultimo sguardo per controllare se avessi lasciato qualcosa di basilare, tipo, che ne so, il passaporto.
Niente sguardi languidi che durano ore, niente carezze al legno della scrivania (?), niente mano appoggiata sul vetro dalla finestra guardando fuori.
Dite che ho visto troppi film?
Il resto lo sapete già.
In un attimo ero nel taxi.
E l'attimo dopo nella stazione dei pullman.
E poi sul bus.
Che ha deciso di fare una deviazione passando dal Bronx.
In ogni caso, passare il Natale a New York mi ha un pó distratta.
Tipo ora mi sento come se fossi arrivata qui il 20 dall'Italia.
Poi ripenso alla fatica che ho fatto per trascinare le valige in metro fino all'aeroporto e mi ricordo quanta roba avevo.
Possibile che questo semestre stia già svanendo?
Che stia giá sfumando nei ricordi?
Che stia lasciando un gusto dolce in bocca, come quei momenti preziosi dell'infanzia, anche se non ti ricordi esattamente cosa é successo?
Le altre, che sono già a casa da qualche giorno, dicono che una volta messo piede oltre la soglia di casa sembra di non essere mai partite.
Buffa la nostra memoria.
Più tenta di afferrare un ricordo, di renderlo nitido, di disegnarne i contorni, più il ricordo sfugge.
Si deforma, si frantuma e a noi rimangono dei pezzi.
Per esempio, adesso tutto mi sembra compresso.
Non ricordo esattamente la lunghezza dei mesi. 
Novembre é volato come esattamente le prime due settimane di dicembre.
Dove sono finiti i giorni?
Come hanno fatto a contrarsi e sgusciare via così?

Ma i miei sensi funzionano meglio di qualsiasi tipo di sforzo mentale per ricordare.
E' facile con la vista: ricordo perfettamente ogni momento attaccato ad una fotografia, mentre i giorni in cui non ne ho fatte sono più sottili, più impalpabili.
Allo stesso modo le canzoni sono attaccate a dei momenti.
Non potrò più ascoltare "Work Out" senza ricordarmi che era la sveglia di Marina.
Né "Mr. Wonderful" senza pensare a me Sara camminando a ritmo di musica per Western Avenue.
Né "Die Young" senza ricordare la sera del compleanno di Alice a bere qualche birra nella sua stanza. 
Né Gangnam style senza ricordare quella sera in quel bar anonimo nel Wisconsin, a ballare con nuovi amici con una spensieratezza che chissá se ritroverò mai. 
Né Alright di Pitbull senza pensare allo sculettamento mio e di Marina a zumba. 
Anzi, la sto ascoltando in questo momento e sto iniziando a dondolare a destra e a sinistra.
Credo che il mio vicino intellettuale alla mia sinistra sia già spaventato.
E abbiamo ancora sei ore di volo.
Non riesco ancora a capacitarmi del fatto che tra sei ore planerò nella terra dove tutti parlano italiano.
Sembro demente, me ne rendo conto.
Ma essere circondata da gente che parla un'altra lingua all'inizio fa strano, poi ti abitui. A crearti il tuo guscio, dove loro non possono capirti ma tu puoi capire loro, puoi interagire ma allo stesso tempo distanziarti.
E a casa questo tipo di privacy sconosciuta non si può avere.
Comunque.
Dicevo.
L'olfatto rimarrà sempre il senso che mi emoziona di più. 
L'altro giorno camminavo per New York e per un attimo mi é arrivata un'ondata di odore di lavatrice.
Lo stesso odore indescrivibile di quando scendevo nel seminterrato con il mio sacchetto di roba da lavare e il profumo caldo di pulito mi inondava le narici. 
L'odore di camera di Marina allo stesso tempo.
Un misto del suo profumo, delle sue maledette candele profumate (confiscate dopo tipo due settimane) e del suo detersivo.
L'odore che c'era nelle classi.
L'odore del profumo di Lorraine ogni volta che ci abbracciavamo per dirci "I will miss you so much"
L'odore delle salviette profumate che usavo per spolverare.
L'odore di fritto che mi rimaneva addosso ogni santa volta che scendevo a mangiare. 
Ecco quest'ultimo spero di non sentirlo per un pó.
L'America mi ha lasciato non so quanti ricordi, mi ha vista crescere velocemente in quattro mesi (e NO, non solo in larghezza, maledetti malpensanti) e grazie a lei d'ora in poi guarderò il mondo con occhi un pó diversi.
Un pó piú globalizzati.
Un pó piú grassi.
Un pó piú "yo!"
Un pó piú grandi.

Ed é il regalo più bello che questo paese potesse lasciarmi. 

giovedì 27 dicembre 2012

Are you coming home?


Cause di forza maggiore (leggi: impacchettamento, addii e mancanza di wifi) nessun post all'ultimo momento prima di lasciare quel buco che mi ha accolta per ben 4 mesi.
Forse é stato meglio così.
Primo post dal mio nuovo bambino. 
E adesso faccio i conti con l'ultima notte a NYC. Ultima notte negli States. 
L'ultima volta che ho dormito nel mio letto é stata la notte del 17 agosto. 
Per quattro mesi mi sono addormentata in letti sconosciuti, uno dei quali era quasi diventato casa. 
Il mio odore ci era rimasto impresso sopra. Non nelle lenzuola. Proprio nel letto. 
Nel materasso, nelle doghe, nel legno. 
La stanza 306 avrà per sempre un pó del mio odore, non importa chi ci dormirà. Chissá chi, poi. 
In ogni caso, sono nella mia minuscola stanza nel cuore di Manhattan, oggi ha nevicato potentemente e mi sono bagnata fino all'osso. Tento invano di far entrare tutto nelle valige. 
Sono così agitata che non so descriverlo.
Il semestre che ho appena passato é così vivido nella mia mente e allo stesso tempo così sfocato, come fosse stato tutto un sogno. 
Solo una settimana fa salutavo tutti.
Mi aspettavo singhiozzi, lacrime, nasi rossi e mascara colato.
E invece, composta e sorridente, ho abbracciato tutti, uno per uno, con la promessa di rivederci presto.
Sono salita sul mio taxi, unito pollici e indici a forma di cuore dal finestrino, e guardato per l'ultima volta tutti loro fuori dall'Alumni, con un sorriso.
Ok, ho iniziato a piagnucolare appena girato l'angolo.
Ma per pochino.
Non ho ancora realizzato il tutto, credo.
Forse penso solo di prendere il pullman che mi riporta lí, domani.
invece che un volo Delta che mi recapita a Malpensa.

Quante parole che avrei da dire, quanto sonno che ho in questo momento e quanto groppo in gola che mi si sta creando. 
Ho troppi pensieri ingarbugliati. Mi toccherà sbrogliarli.
Prima o poi.
Non adesso.
Fare i conti con troppe cose contemporaneamente non é da me.

Le metto tutte in stand by per qualche giorno.
Finché non saró rincoglionita dal jet-lag e odore di casa.
Allora sí, che sará il momento di fare i conti con i miei nodi alla gola.



Are you coming home?

martedì 11 dicembre 2012

#leaveamessage




Mi faccio promotrice di una cosa carinissima, a cui ho partecipato anche l'anno scorso.
Se siete anche solo curiosi, cliccate proprio qui che non fate fatica e questa iniziativa è senza sforzo ma di grande effetto.
Come dice l'hashtag, #leaveamessage è un modo per sorridere anche quando le cose vanno in mer non proprio come vorremmo.
Si tratta semplicemente lasciare dei bigliettini in giro per la vostra città, in posti facilmente raggiungibili, con frasi positive, buffe, che facciano ridere, che facciano scompisciare il prossimo.
Insomma, qualcosa di carino che vorremmo che fosse detto a noi.
Per dire, non "sono solo le otto di mattina, hai le occhiaie ma la tua giornata può ancora peggiorare, potresti tipo pestare una cacca con le tue Loboutin nuove".
Ma qualcosa del tipo "Dopo l'ufficio premiati col calendario della Santarelli, te lo meriti". "Regalati un massaggio questo weekend, il tempo dedicato a te è sempre il migliore"
Insomma, capito il concetto, no?
Ficcateli in un libro della biblioteca, tra i giornali al bar, in una cassetta delle lettere, sui banchi di scuola.
L'unico senso che ha questa iniziativa è sorprendere positivamente.
Quest'anno l'iniziativa sostiene anche l'Ospedale Meyer, per sapere tutto vi rimando al link di cui sopra.

Io lo faccio da qui.
Voi fatelo a casa, anime aride che non siete altro.
Trovate dieci minuti per scrivere due frasi carine, e spargete un pò di buonumore nel mare di cinismo in cui ci troviamo in questo periodo.
Combattiamo la nostra pigrizia e la nostra mancanza di iniziativa con questa trovata carinissima.
E' gratis e comporta sforzo pari a zero.

Se avete twitter, twittate l'hashtag #leaveamessage e il luogo dove avete lasciato il bigliettino, e la città, così che possa essere trovato più facilmente.

Spargete la voce, condividete questa pagina o il link a cui vi ho rimandati, e piegati quegli angoletti della bocca all'insù.


lunedì 10 dicembre 2012

L'America che (mi) cambia

Questi ultimi giorni scorrono veloci ma allo stesso tempo lenti, trascinati, come quando al mattino ti vuoi godere quegli ultimi minuti di tepore nel letto stropicciandoti sotto le coperte.
Ecco, questa è esattamente la sensazione che io, e credo tutti, stiamo provando.
Scrivo dal tavolo della stanza comune, procrastino la mia doccia (finirò a farla ad un'ora indecente tipo le due), puzzo di patatine fritte e cibo cinese.
Perchè stasera ho fatto cena due volte.
Una alle sei tornata dal mall (ve l'ho detto che qui sono strani, io alle sei a casa non ho ancora nemmeno preso l'aperitivo), e una adesso. Ma siccome adesso la dining hall è chiusa, abbiamo ordinato cinese.
Può una persona avere meno ritegno di me nel cibo?
Non credo.
Stiamo facendo finta di studiare.
O almeno, io.
Mi sfugge come mai qui un esame può essere un paper.
Va bene, forse è il caso che mi spieghi un pelino meglio.
Ogni corso è semestrale, il tuo voto è la somma di puttanate come quiz, partecipazione, presenza (le lezioni sono obbligatorie), test, presentazioni, assignments, test.
Ha un vago senso.
Anche se l'esame finale a dicembre vale tipo il 15% del voto.
Ma il bello è che per alcuni corsi gli esami non esistono.
Il mio corso di letteratura ha due cosiddetti esami. Uno a metà semestre e uno alla fine.
Entrambi sono sottoforma di take home exam.
Ovvero, un saggio di una decina di facciate, sui libri che (non) ho letto in classe.
Cioè, ricapitolando.
La presenza è obbligatoria. Punti pieni.
Niente presentazioni per questo corso.
Due midterm da scrivere a casa.
Il tempo a disposizione è una settimana.
Non cinque ore.
Una settimana.
Niente esame.
Questo vuol dire niente ripassi notturni, niente ripetere per ore a madre, padre, amici, fidanzati, cani, gatti.
Vuol dire niente cagotto nelle sedici ore che devi aspettare prima di dare il tuo orale.
Niente sensazione di svenimento/vomito imminente/bisogno di un pannolino nel momento in cui il professore chiama il tuo nome.
E' il paradiso universitario.
Per un altro corso ho avuto l'esame, devo ammetterlo.
Ma ho avuto le domande una settimana prima.
No, non le ho rubate.
Il professore non voleva tenderci una trappola o cosa, ma solo verificare che avessimo capito i punti critici del corso.
Così ci ha dato le domande, tre, molto ampie, e abbiamo dovuto sceglierne due.
La settimana dopo abbiamo dovuto rispondere in due ore alle domande scelte.
C'è gente che ha preso D.
Che è tipo un 18 scarso.
Io non sono un genio e passo la maggior parte del mio tempo a cazzeggiare, come avrete capito.
Ma quando c'è da studiare il mio impegno ce lo metto.
Magari faticosamente, eh.
Però la mia porca figura riesco a farla quasi sempre.
Quindi sono qui, che non ho ancora le domande per i miei take home exams, a passare il tempo.
Mangiando, ovviamente.
E comprando.
Ogni tanto dò uno sguardo all'armadio, il letto, i cassetti, e alle mie due valige.
Alterno lo sguardo parecchie volte.
Ma non esiste nessuna legge della fisica che mi rassicuri.
Tutta la mia roba non entrerà mai in quelle due valige.
E il momento di impacchettare tutto è sempre più vicino.

Mioddio, non fatemi pensare al momento in cui chiuderò la porta della stanza vuota per l'ultima volta.

Ps. E' arrivato anche il momento fescion blogger.
Chiamatemi pure la Ferragni dei poveri.
Non ho resistito e ho comprato due rossetti della Mac oggi.
Che in Italia costano na fucilata (lo so perchè ho controllato su internet, ho messo il rossetto tre volte nella mia vita credo.) ma qui sono decisamente più cheap.
Un rosso chiamato Ruby (tutto un programma) e un rosa shocking firmato Nicki Minaj (sta andando a ruba! Affrettati! Mi disse con testuali parole la commessa).
Questi quattro mesi hanno contribuito alla mia crescita, e a capire come anche le piccole cose cambiano in un soffio.
Qui ho sperimentato anche il mio debutto nel mondo del makeup che conta.
Quelli che si chiamano i traguardi di una vita, insomma.
Avevo un rossetto, una volta. Pagato tipo due dollari non so dove.
Di quelli che se li prendi in regalo nei giornaletti da adolescente rischi di prenderti pure una malattia.
Non sono mai andata oltre il mascara di Maybelline e il phard di Deborah.
Ora metterei il rossetto di Mac pure per andare al cesso.
(Come vedete la finezza che mi contraddistingue non è mai cambiata. Rassicuratevi)
Quindi ho trovato un nuovo modo per spendere i (non) miei soldi.
Padre, mi leggi?

venerdì 7 dicembre 2012

Sgoccioli.




13 giorni rimasti ad Albany.
20 negli Stati Uniti.
Scrivo come al solito dalla mia vecchiotta scrivania, Waterbury Hall, stanza 306.
Dio come non dimenticherò questo loculo dalla finestra che non riesco mai ad aprire, (e quando ci riesco mi strappo due o tre muscoli della spalla), dal materasso foderato da qualcosa di lucido e scivoloso così le mie lenzuola di microfibra alla sera sono perfette e al mattino sembra che otto gatti abbiano giocato nel mio letto, (Badate che ho detto gatti e giocare. La mia fantasia sarebbe potuta andare molto più lontano), dai cassetti perennemente incastrati che una volta a forza di tirare mi è venuto via tutto.
Mi mancherà chiamare questo posto casa, tornarci dopo un weekend via e accasciarmi sul letto come quando si torna davvero, a casa.
Come vedete la settimana scorsa ha nevicato.
Prima e (chissà) ultima nevicata che abbiamo visto ad Albany.
Era esattamente la notte tra il 30 novembre e il primo dicembre, per essere precisi era l'una di notte e noi fuggivamo dall'house party di fronte al dormitorio perchè era arrivata la polizia.
Ehm.
Poco poetico lo so.
Ma divertente come non mai, posso assicurarvelo.
Abbiamo giocato nella neve in collant e cappottino autunnale all'una di notte.
Roba che se lo sa mia madr...Ops.



Mi mancherà persino passare la mia Suny Card all'entrata a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Tornare a casa dopo due fette di pizza da Di Carlito's, o una barcata di noodles dal cinese all'angolo.
Nel weekend abbiamo progettato e fatto realizzare delle magliette tutte uguali con il motto di questi quattro mesi.
Qualcosa di dolce e zuccheroso? Tipo vi vorrò bene per sempre?
Non esattamente.
Eccovele qui.


Insomma, ognuno ha i suoi modi per dirsi ti voglio bene, no?
Voi poi non lo sapete, ma dopo aver scritto queste due righe e postato la foto sono rimasta tipo trenta secondi a scrutarmi. Nella foto, dico.
Non esiste una parte di me che non sia ricoperta da un sottile strato di grasso.
Tranne la faccia, quella è direttamente farcita da due ghiande nelle guance come se fossi Cip.
O forse Ciop. Quello un pò più rinco.
Ringrazio di aver preso la decisione di andare in America nel primo semestre, così quando torno non sarò costretta a sfoggiare bikini inglobati nelle mie nuove e sfavillanti maniglie dell'amore, ma trascinerò la mia ciccetta in esubero ben nascosta dal parka.
La domanda del secolo è: tornerò mai normale?
Non ho idea della quantità precisa di chili (ma tranquilli: il simpatico ometto che io chiamo Padre vuole portare una bilancia in aereoporto il giorno del mio ritorno, giusto per essere sicuri), ma ho constatato che si possono avere rotolini anche dove non pensavo potessero esistere.
Tipo dietro al collo quando piego la testa.
O sulle spalle.
O sulla schiena quando mi giro a destra e a sinistra.
A voja di fare zumba, avrei dovuto darmi al boot camp, maledizione.

Comunque, in attesa di sapere se mi ci vorrà una rapida lipo o semplicemente qualche mese di cibo normale,
posso dire di essere ingrassata e felice.

Ps. mi dispiace davvero tanto per voi che dovete sorbirvi il mio blaterare di ciccia.



martedì 4 dicembre 2012

Guardo indietro.

Due e ventisette di mattina.
Sono tired as fuck nonostante abbia anche fatto un pisolino di mezz'oretta tra una lezione e l'altra oggi.
Eppure la mia insonnia cronica mi tiene sveglia.
Da qualche giorno qui aleggia un'aria di tristezza mista a rassegnazione, mista a stanchezza mista a voglia di strafare perchè tra due settimane veniamo rispediti da dove veniamo e chi si è visto si è visto.
E quindi via alle frasi strappalacrime sulle agende durante le lezioni, via all'ennesima birretta con commento annesso "Oh pensa quando torniamo, il primo giovedì a casa ti scrivo su whatsapp per vederci alle dieci alla WTs".
Ieri da sola sul pullman, con le cuffie nelle orecchie, due o tre canzoni scoperte qui (che a voi a casa immagino facciano cagare, secondo un mio rapido sondaggio), che mi ricordano tanti stupidi momenti vissuti qui, mi è scesa una lacrimuccia.
Una, giuro.
Stanno per finire i 4 mesi più incredibili della mia vita.
Una realtà che non immagino di poter vivere, eppure eccomi qua, a due settimane dalla fine.
Un capitolo emozionante, meraviglioso e spaventosissimo della mia vita sta per finire, e in bocca rimane quel sapore dolceamaro che segue sempre un addio, o un arrivederci.
Non sono mai stata brava coi saluti.
Non riesco a staccarmi dalle persone, manco dalle cose, figuratevi.
Potessi conserverei tutto.
Sono devota al cambiamento, mi annoio presto e facilmente.
Il cambiamento è normale, naturale, vitale.
Il cambiamento ci fa cambiare punti di vista, ci fa scoprire nuovi motivi inaspettati per sorridere.
Ma quando coinvolge il salutare delle persone, proprio non mi va giù.
Non accetto la separazione.
O almeno, la accetto con il tempo.
Non sono capace a separarmi di netto. Un abbraccio veloce e via.
Sono una di quelle persone che in aereoporto abbraccia ventisette volte, e poi ancora un'ultima volta.
E poi ancora una.
E rischia di perdere il volo.
E non sa mai quando tacere, e smettere di dire cose banali e sdolcinate.
E non sa chiudere un rapporto, un periodo, una conversazione senza tirarla avanti senza senso.
I tagli netti non sono per me.
Ho sempre camminato in punta di piedi nelle vite degli altri, chiedendomi in continuazione cosa fosse meglio dire o non dire, chiedendomi come indorare la pillola, quando invece la maggior parte delle volte la pillola non va indorata ma accettata così com'è.
E devo imparare ad accettare questi saluti per quello che sono: la fine di un periodo, non di innumerevoli rapporti importanti.
I rapporti cambieranno, sentirò la mancanza.
Ma invece di lamentarmi della fine, dovrei già sorridere per un nuovo inizio.
Fatto di ritorni a casa, di abbracci, di mondo conosciuto.
E di pianificazioni di viaggi in giro per il mondo.
Perchè sono sicura che le nostre strade si incroceranno.
Presto o tardi.
Un legame come questo resiste al tempo e allo spazio.
Per ora è l'unica certezza che ho, prima di partire.



giovedì 29 novembre 2012

Datemi un Tacchino. Ovvero il mio primo Thanksgiving.



Mi sto maledicendo mentalmente perchè sono passate due settimane dall'ultima volta che ho prodotto qualcosa di leggibile, e avrei voluto scrivere molto di più. Soprattutto perchè tra meno di un mese porto via baracca e burattini e ritornerò a scrivere di...di che? Della metro di Milano e della mia Hyundai Atos del 99.
Quindi vi sto per rifilare un post epico.
Non tanto per quello che scrivo, ma per quello che ho vissuto.
Come sapete qui in Obamalandia festeggiano il Thanksgiving.
E a tutti viene in mente un mega tacchino e cibo a volontà.
E fondamentalmente è quello.
Ma la magia di questa tradizione mi ha travolta come la mattina di Natale quando avevo dieci anni.
Ma partiamo dall'inizio.
Come al solito mi sono portata dietro la mia famiglia adottiva, ovvero Sara e Marina.
Lunedì notte abbiamo dormito tre ore, alle sei eravamo di fronte all'entrata dell'Alumni ad aspettare il taxi.
Freddo, sonno, occhi gonfi, un borsone a testa e ancora la bocca impastata dal sonno. Forse il segno del cuscino sulla guancia. Ma l'aria che ho respirato in quel momento, l'aria di partenza, di viaggio, di novità, di scoperta, di avventura, di nuovi volti, voci e risate, di abbracci e voglia di vivere, non la dimenticherò mai.
Fatto sta che mi sentivo parecchio poetica anche in quel momento, su quel sedile del solito pullman che ci stava portando a New York alle sette di mattina. Quindi ho avuto la forza di sbloccare il mio iPhone (vedete a cosa serve, voi che non capite chi è slavo della tecnologia?) e scrivere una nota chilometrica sul viaggio, le amicizie, il senso della vita e tutti i luoghi comuni che vi vengono in mente.
Ma è davvero una dolcezza.
Quindi la posterò.

20 novembre. 7:58
Nemmeno le otto di mattina. Tre ore di sonno. Musica nelle orecchie e sole che sorge. E tutto quello che mi viene in mente è che sono fatta esattamente per questo. Per spogliarmi di tutto. Mettere due vestiti a caso 
(falso, falsissimo: ci ho pensato per due giorni a lezione, a cosa portare.) in un borsone e muovermi. Partire. Viaggiare. Vedere. Questo paese mi strega, mi chiama e non posso non rispondere. Sto guardando il cielo, ora. E' enorme (Va bene, forse era meglio rileggerlo prima di salvarlo sul cellulare. La banalità fatta a nota). Tutto qui sembra più grande. Sconfinato, non prova mai a soffocarti. Abbraccia. Accoglie. Gli alberi, le strade, le foglie, i colori. I colori sono più grandi, più forti, più penetranti. Ti entrano dentro e non puoi farci nulla. I colori del cielo sono forti, vivi, inebrianti. Tutto fa venire voglia di muoversi, correre, volare, scoprire, scoprirsi. Sono su un sedile di un pullman in mezzo al nulla tra Albany e New York, con due persone che non conoscevo fino a tre mesi fa e ora non riesco a immaginare il momento in cui dovrò separarmi da loro. Mi sento come se non avessi fatto altro nella vita. Da sempre. Non mi sono mai sentita così viva. Così piena di vita, di voglia di fare, i miei occhi non ne hanno mai abbastanza. Mi riscopro con gli angoli della bocca piegati all'insù. Senza accorgermene. Mi lascio andare. Non ancora del tutto. Spesso tendo ancora a controllare, a trovare dei punti fermi, a volere una sicurezza. Ho sempre avuto bisogno di avere tutto sotto controllo. Ma qui è una sfida continua, e io vinco spesso. Ma anche perdere non è male.

Insomma, una perla di poesia, neh?
Cosa volete, dopo tre ore di sonno e un panino al formaggio e salame alle sette del mattino?
Abbiamo volato da NYC a Chicago. Due ore e mezza e tre o quattro stati dopo siamo atterrate nella Città del Vento. Chicago è stupenda. Sono senza parole. Se uno sogna New York guardando Gossip Girl, non ha idea di cosa si perde non sognando Chicago.
Chicago è una distesa di casette e casupole che diventano un gruppo di grattacieli affacciati sul lago. Che potrebbe benissimo essere il Mediterraneo.
New York è e sempre sarà New York.
La città di cui mi stampavo le foto dal mio pc windows 95 e me le appendevo al muro.
Sarà sempre la città in cui ho visto camminare Carrie Bradshaw con le sue Manolo da capogiro.
Ma Chicago ha un fascino che porta via il fiato.
Downtown è decisamente più piccola di Manhattan, più concentrata.
Ma ha ampie strade, negozi ad ogni angolo, palazzi moderni ma anche dal sapore europeo.
Non ti dà quella sensazione di fretta, di vite che corrono frenetiche, di persone che si scontrano uscendo dalla metro o che litigano per un taxi.
Non si sente quell'odore persistente e acido di vino che ti entra nelle narici e non se ne va più.
Chicago è una metropoli che ti mette a tuo agio. Non ti spinge, non ti mette fretta nella rush hour.
A due passi dal Loop metti piedi in Millennium park.
Rimani affascinata dal Bean che riflette tutto il mondo alle tue spalle.
Fai due passi a bordo lago. Ti perdi tra il cielo, il vento, il verde del parco e l'argento scintillante dei grattacieli. Provate a immaginare grattacieli di cui non vedi la fine e un molo enorme che si perde in un lago grande quanto il nostro mare. E' qualcosa di incomprensibile per noi.








Dopo un giorno e mezzo a Chicago abbiamo di nuovo impacchettato tutto e via, dei noodles in una scatola e pronte sul treno per Milwaukee.
Altro giro, altro stato.
Siamo state prelevate direttamente alla stazione da Matt, e via in direzione Grafton, a una ventina di minuti da Milwaukee.
Non appena abbiamo messo piede nella sua casa persa in mezzo agli alberi spogli, non appena abbiamo abbracciato i suoi genitori che ci hanno accolto a braccia aperte, abbiamo sentito aria di famiglia.
Una casetta curata in ogni dettaglio, una casa che sa di famiglia, di cose vere.
L'ospitalità di queste persone non la dimenticherò mai.
Credo che il vero padrone di casa riesca a fare in modo che il proprio ospite si senta davvero a casa, e non solo un ospite che ha paura di toccare qualsiasi cosa per paura di rovinarla.
E si, loro sono stati padroni di casa perfetti.
Dopo pochi minuti ci sentivamo già a casa.
Ci hanno accolte senza problemi, per uno dei giorni più importanti e intimi dell'anno.
Abbiamo aiutato Linda (la mamma) a preparare l'apple crumble, abbiamo chiacchierato e raccontato le nostre vite come se ci conoscessimo da sempre.
Abbiamo abbracciato ogni parente, abbiamo sorriso ad ogni complimento, abbiamo riso ad ogni battuta.
Abbiamo visto il tacchino fumante uscire dal forno.
Abbiamo pregato insieme a loro. Abbiamo ringraziato per il cibo.
Mi ci vedete, voi, a dire la preghiera prima di mangiare?
Eppure lì, in quel momento, mi è sembrata l'unica cosa sensata da fare.
Immergersi dentro culture diverse dalla tua ti fa capire che non sempre hai ragione.
E soprattutto che non sempre esiste un giusto o sbagliato, ma che la vita è molto più flessibile e malleabile, che i confini non sono così netti e che muoversi tra una barriera e l'altra è spettacolare.
Non ho mai dormito meglio in quel letto preparato con amore, che sapeva di lenzuola lavate di fresco e coperte di una nonna che le ha conservate con cura.
Non ho mai apprezzato così tanto un caffè solubile al bancone di una cucina.
Non mi sono mai sentita così serena a più di settemila chilometri da casa.
Due giorni di dolce far niente, di cibo, di football, di maratone di film e di tenerezza in famiglia.
Sarà che mi è venuta in mente la mia, di famiglia, sarà che mi hanno dato l'impressione di essere davvero uniti, sarà che sono lontana da casa, ma non mi sono mai sentita così tanto a casa in questi tre mesi come in quella cittadina nel mezzo del Wisconsin.


Dopo due giorni siamo ripartite.
Tante cose in più nel cuore, un velo di tristezza nel cuore negli abbracci.
Chissà se ci rivedremo ancora.
Nel viaggio di ritorno a Chicago non sono riuscita a dormire.
Ho scritto una nuova nota.

23 novembre. 10:26
Altro mezzo di trasporto, altro Stato, altra alba. Sono sul treno che torna a Chicago dopo due giorni di America pura a Grafton. Immersa nel nulla, fattorie con granai stile Clark Kent, casette da set di Desperate Housewives. Ho amato il MidWest, con il suo accento morbido e comprensibile, molto meno ritmato di quello di New York. E' quando inizi a distinguere gli accenti che ti senti davvero potente, fuck yeah. Scusate. Dicevo. Ho amato il MidWest per il suo adattarsi perfettamente al mio concetto di America. L'America che va oltre la metropoli, quella che si nasconde in casette di legno, in dettagli, in ghirlande di foglie secche, in bandiere con tacchini, in lucine di Natale attorcigliate intorno ai corrimano dei portici delle case. Ho amato il MidWest per la sua aria di fresco, di aperto. Per i sorrisi della gente che ho incontrato e mi ha ospitato. Per la gentilezza e la cura con cui sono stata trattata, una sconosciuta a casa loro. Ho passato un giorno del ringraziamento da sogno. Ho sorriso emozionata ad ogni passo della cottura dei piatti. Ho abbracciato parenti che non vedrò probabilmente mai più. Ho guardato dentro occhi che forse non incrocerò più ma le sensazioni che mi hanno dato non le dimenticherò mai. Mi sento anche io di ringraziare. In questo momento sono così ubriaca di cibo, affetto, sorrisi, abbracci, e sonno che snocciolerei una lista infinita.
Che parte dai miei genitori. Che mi hanno dato la possibilità di essere dove sono. Che nonostante le mille paure hanno stretto i denti e mi hanno lasciata andare. Va avanti con tutte le persone che mi sono accanto da casa, vicine ma lontane. Con chi mi ha sempre supportata, anche con i miei deliri. Un grazie gigantesco alle due persone che mi hanno coccolata come se fossimo amiche da sempre, Sara e Marina. Con loro le parole spesso non servono, sappiamo benissimo quando tacere.
Ringrazio chiunque sia capitato sulla mia strada in questi tre mesi, perchè ha contribuito a spogliarmi di tante mie paure e a rendere il mio sorriso meno insicuro.
Ringrazio di avere la possibilità di farmi entrare tutto nella pelle, di vivere quello che ho sempre immaginato dall'interno. Di capirlo. Di rigirarmelo tra le mani come un giocattolo e scrutarlo con la curiosità di un bambino. 
Ringrazio me, perchè non ho più paura di superare i miei limiti. Perchè la sensazione di guardarsi intorno non ha paragoni.

Siamo ritornate a Chicago. E questo è quello che abbiamo trovato.




Per finire, ho trovato un'ultima nota.
Stavo guardando l'alba dall'oblò. Sul mio volo delle 5.45.
Stavo tornando a quella che per questi tre mesi è stata casa.

24 novembre. 6:38Sei e trentotto. Guardo a destra e vedo nuvole pannose, stringo gli occhi verso il sole che ha appena fatto capolino dalla distesa bianca e increspata. Ho dormito tre ore.
Posso vedere i miei occhietti stanchi riflessi nello schermo del telefono.
Una figa, insomma.
Il nostro Thanksgiving break è quasi finito e torniamo a casa cariche di nuove cose.
Abbiamo messi piede nella Willis Tower. 103 piani. Immaginatemi nello sclero dell'altezza. Ma mi ha tolto il fiato. Il mondo visto dall'alto ha tutto un altro gusto. Un pò come guardarlo da questo oblò. Paradossalmente è uno dei pochi posti dove mi sento al sicuro. Quassù, nel silenzio. Mentre le altre dormono e io mi perdo nelle tonnellate di stupidaggini che ho nella testa e nei colori di una mattina di novembre oltreoceano.

Questo è tutto quello che sono riuscita a produrre sull'aereo.
Che è tanto con sole tre ore di sonno alle spalle.
Ma la cosa stupenda è che ripartirei domani mattina, senza una meta, senza un albergo, senza nulla.
Solo con la voglia di fare che mi accompagna sempre e le mie due compari.




E l'iPhone. Ovviamente.

giovedì 15 novembre 2012

La forza dell'ormone

Sarà che sono più tonda e si sa, più ciccetta hai più ormoni gironzolano indisturbati nel tuo corpo, sarà che mi sono autodiagnosticata un bipolarismo cronico, sarà che sono donna e per definizione fuori di testa molto sensibile, ma stasera c'ho la malinconia nell'anima.
Di casa?
Non esattamente.
Di qui.
Ieri sera eravamo al pub, IL pub, il nostro. La WTs.
Avevo anche un esame di francese oggi, in cui ho dovuto registrarmi per 3 minuti su di un Mac. Parlando in francese. Ma la cosa bella è che era un video.
In ogni caso, eravamo tutti lì.
Un'amica irlandese venuta qui per la settimana partiva oggi e volevamo salutarla.
Egnente, immaginatevi che già sono triste di aver salutato lei dopo una settimana, figuriamoci tutti gli altri.
Poi il fato, il destino, il karma e il feng shui messi insieme hanno fatto passare alla radio questa canzone:

Vitamin C - Graduation

Vi consiglio di ascoltarla soprattutto se siete dei nostalgici degli anni novanta e dei licei alla Dawson's Creek.
E guardatevi il video perchè l'abbigliamento (americano) anni novanta merita non poco.
Il testo in poche parole parla di una classe di liceo che si separerà dopo 5 anni.
Finisci il liceo, non hai la più pallida idea di cosa tu abbia studiato a fare, di cosa tu voglia fare nella vita ma ti senti sul tetto del mondo.
Quando hai 18 anni, una rivoluzione nella mente, una ribellione nel cuore e una hola nelle mutande.
Ups.
In ogni caso, quando prometti che sì, sarete amici per sempre no matter what.
Che ci sarai sempre.
Che vorrete sempre bbbbene.
E sai benissimo che con la metà di loro non parlerai mai più.
Ma comunque, per non sprofondare nel cinismo più buio, ritorniamo al mio punto.
Passa questa canzone alla radio.
E via con i "ci pensi tra un mese ci salutiamo tutti.." "Oh, facciamo un Eurotrip appena finisco l'internship.." "St'estate vengo in Brasile!" (Questa l'ho detta io, madre e padre). E quando li dici ci credi.
Perchè è vero, che ci vuoi credere.
Sai benissimo che nulla sarà come te lo immagini, che una volta partiti tutti rivedersi sarà uno di quei gusti dolciamari che sanno di minestra del giorno dopo.
Sai benissimo che alla fine tutto cambia, perchè semplicemente deve cambiare.
Ma aggrapparci con le unghie a quello che ormai ci appartiene è scritto nel nostro DNA.
Qui inizia a mancare un mesetto e ormai questo "non voglio tornare a casa" inizia ad essere un ritornello buttato lì in ogni conversazione.
Che poi in realtà so che vorrei tornare.Ma con la certezza di poter ritornare qui con uno schiocco di dita.
Mi manca tutto, costantemente.
Il bidet prima di voi tutti, sappiatelo.
Ma comunque non vedo l'ora di riabbracciarvi tutti, e spupazzarvi per bene.
E' solo che quando sono partita sapevo benissimo che sarei tornata.
Nessuna certezza è crollata.
Troverò tutto come l'avevo lasciato (o quasi).
Quando lascerò questo posto so benissimo che non lo rivedrò più.
(Va bene. Dov'è lo sgabello? E il cappio? Un antidepressivo?)
Ma perchè ci sto pensando adesso?
Sto blaterando.
Saranno le troppe poche ore di sonno.
(E la quantità di zuccheri che ingurgito)



Ho prodotto di nuovo un post che non mi soddisfa, ma voi cliccate qui sopra, ascoltatevi la canzone e pensate a quando avete promesso a qualcuno che non vi sarete mai separati, perchè in quel momento ci credevate e sognavate un'amicizia infinita.
E per la miseria, me lo sono fatto anche tatuare sul polso, che io sono una sognatrice.
Troppo concentrata nel mio mondo per avere voglia di aprire gli occhi. 

mercoledì 14 novembre 2012

Obamatown - Neverending trip



Dateci un weekend, ottanta dollari e infinite 8 ore totali di pullman e andiamo in capo al mondo.
O meglio, nella capitale degli Stati Uniti.
Sei e mezza di mattina, tre tonne imbacuccate come fossimo al polo, un taxi, una stazione dei pullman.
Un pò di nanna sconnessa fino a New York.
Due passi fino all'altra stazione dei pullman.
E poi via, pigiate negli ultimi sedili di un Megabus verso l'infinito e oltre.
Roba che io non riesco a dormire nel mio letto, figuriamoci su un sedile del bus.
Abbiamo attraversato il New Jersey, un pezzo di Pennsylvania, il Delaware e il Maryland.
Mi sono sentita molto Jack Kerouac in On The Road, peccato che al posto della macchina mi è toccato il pullman. Ma almeno avevo il wifi. I vantaggi di viaggiare nell'era di Steve Jobs.
Sfiorato lo sclero dopo un'ora in più di ritardo, mettiamo piede fuori dalla stazione.
Premetto che chi di voi è stato a Washignton mi ha detto: mah, robetta. Fa schifino.
E io con la gioia di un ornitorinco ho trascinato le mie membra in un posto che pensavo facesse schifino.
Ma la vita ha voluto sorprendermi, e o a me piacciono le cose brutte, o Washington è davvero bella.
Cioè, tenete conto che io vivo ad Albany.
Dove credo abbiano preso spunto per tutti i personaggi di Prison Break.
(Per la cronaca, tutto il personale che lavora alla dining hall è ex carcerato. Seriamente)
Quindi, immaginatemi nella capitale ricca del paese più orgoglioso di sé stesso al mondo.
Nessun grattacielo, solo grandezza.
Palazzi messi un pò lì a caso, imponenti, vicino a casette a due piani che ricordano tanto una Londra per bene.
E poi lei, la Casa Bianca.
Minuscola.
Voi vi aspettate una roba gigantesca ma la foto che vedete qui sopra è stata zoomata diecimila volte.
Ma il suo effetto lo fa stesso.






E poi uno spazio enorme, infinito, che sa di respiro e di storia.
Cosa non facile da trovare in America, soprattutto per noi abituati a Roma e ai suoi millenni di brividi storici.
Qui la cosa più vecchia che hanno è il Thanksgiving.
Comunque, dicevo, sa davvero di storia.
Camminavo lungo l'immensa fontana del Lincoln memorial e mi immaginavo Martin Luther King fare il suo discorso.
Perchè sono idiota nell'anima, ma poi mi commuovo per queste cose.
Ho in mente le foto in bianco nero di quel posto immenso, gremito di gente, con un uomo che la tiene in pugno dicendo di avere un sogno. E sbam. Mi emoziono come una bambina.
Il tempio che sembra romano, la statua enorme di Lincoln.
E poi l'obelisco.
Immenso, circondato da innumerevoli bandiere statunitensi.
Roba che nemmeno noi quando abbiamo vinto i mondiali.
Ed è subito Dan Brown e la storia dei massoni.
Certo che quando voglio faccio proprio la mia porca figura di persona colta.
Abbiamo visto il Capitol.
E il monumento a Martin Luther King.
E quello alla guerra del Vietnam.
Abbiamo chiacchierato con i veterani. Sulle loro magliette c'è scritto "Every day is a bonus".
E hanno ragione.Si impara anche così, in una ventosa mattinata turistica a Washington.
E infine il lago artificiale, e sull'altra sponda il Jefferson memorial.
Altro tempio, altro premio.
Un'altra statua.
Un altro silenzio e un'altra riflessione.
Gli americani quando si impegnano mi strappano il cuore.

Abbiamo fatto foto, mangiato in un ristorante spagnolo, scoperto le vie lussuose della capitale.
Ci hanno offerto il gelato all'Hard Rock Cafè perchè eravamo internazionali.
Abbiamo fatto colazione col Washington post e il sole caldo in faccia.
Un ottantenne di nome Luigi, americano ma di origini spagnole ci ha chiesto se abbiamo partecipato a Miss Universo.
Abbiamo mangiato cinese alle quattro del mattino.
Abbiamo riso, ballato, bevuto qualche birra, sognato insieme.
Abbiamo condiviso tutto quello che si può condividere.
Il bello di questa esperienza e di questi viaggi è che ti avvicinano alle persone, di botto.
Così, di corsa, ti costringono ad aprirti, a farti vedere, a lasciarti scoprire.
Velocemente.
Senza aver tempo di pensare.
Ti legano agli altri in un modo che non accade spesso.
Quando sei catapultata in un altro mondo, con un'altra lingua, senza nessun appoggio, sei più vulnerabile.
E trovare qualcuno che ti copra le spalle è una sensazione meravigliosa.


E poi nulla, abbiamo fatto qualche foto con le attrazioni locali.
(Possiamo fare una foto con voi? EH? Roba che manco le quattordicenni con Justin Bieber. Ma tant'è.)

giovedì 8 novembre 2012

Annuso, respiro, tocco, spio, ascolto e assaggio.

Avrei voluto sistemare la mia camera molto prima, stasera.
Avrei voluto fare la doccia molto prima.
Avrei voluto avere il tempo di scrivere un post epico su Washignton, stasera.
Avrei voluto scrivere un pezzo da premio Pulitzer.
E invece.
E invece sono le due di notte, sono stanca morta ma sono troppo eccitata per dormire.
Una giornata lunghissima, ma piena di dettagli che l'hanno resa intensa.
Gesti, parole, sguardi. Risate. Stupidaggini.
Soprattutto parole.
La soddisfazione di far parte di un lavoro di gruppo, esprimere le mie idee e vedere che gli altri le apprezzano. Non nella mia lingua.
Non avete idea della goduria.
Una cena che poteva essere solitaria, ma che è finita con due risate e una creazione di frutta e cioccolato.
Perchè qui incontri chiunque e sono tutti felici di vederti.
Gli occhi sorridono.
Sono curiosi, indagatori, sinceri.
Le persone hanno voglia di parlare, di condividere, di sapere.
Sono come bambini a cui mostri per la prima volta la televisione.
Ti guardano con la stessa curiosità di un bambino. Quella sincera, quella autentica.
E conoscere per loro e per me non è mai stato così bello e appagante.

Oggi la mamma di Marina ha dedicato a me lei e Sara un pezzo di canzone, in italiano.
Niente di ciò che verrà domani
Sará com'è già stato ieri
Tutto passa tutto sempre passerà
La vita, come un'onda come il mare
In un va e viene infinito
Quel che poi vedremo è
Diverso da ciò che abbiamo visto ieri
Tutto cambia, il tempo tutto nel mondo
Non serve a niente fuggire
Nè mentire a se stesso
Amore, se hai ancora un posto nel cuore
Mi ci tuffo dentro
Come fa un'onda del mare.

Volevo piangere, lo giuro.
La cosa più dolce del mondo.
La mia anima da drama queen mi porta a lacrimare ogni due per tre, chi mi conosce lo sa.
(Purtroppo per lui)

E poi niente, io e Sara abbiamo prenotato il volo per Chicago durante il Thanksgiving break.
Non riesco nemmeno a spiegare cosa si sta muovendo nel mio stomaco dall'eccitazione.
Vorrei partire domani ma allo stesso tempo voglio godermi ogni giorno qui.
Il tempo vola, tra un mese e mezzo dovrò salutare tutti e mi si spezza il cuore.
Diciamo che il Natale a NY mi distrarrà a dovere, eh.
Ma lascerò un gran pezzo di cuore in questa modesta e sconosciuta capitale americana.
Oggi stavo pensando a cosa mi mancherà.
Bene, adesso vi tocca sorbirvi la lista.
Adoro le liste.

Mi mancherà avere appesa al collo la mia SUNY card e le mie chiavi.
Mi mancherà Mary, la dolcissima vecchina che al mattino sta all'entrata della dining hall e mi dice sempre "goodmorning honey".
Mi mancherà il "I'll grab a coffee" prima delle lezioni e dello studio in biblioteca.
Mi mancherà pure la puzza di fritto che mi si appiccica addosso ogni santa volta che metto piede nella dining hall.
Mi mancherà il mio letto, la mia scrivania, la mia stanzetta striminzita, vecchiotta e oldfashioned.
Mi mancherà bussare alla porta delle ragazze quando sono annoiata.
Mi mancherà la WTs, Barleys, il Pearl Street pub, De Johns e tutti i posti dove andiamo di solito.
Mi mancherà l'odore di caffè che si sente al mattino.
Mi mancherà la tazza di carta bollente da stringere con entrambe le mani per scaldarsi.
Mi mancherà Washington park.
Mi mancherà il CVS, Price Chopper, Walmart e soprattutto quel paradiso che è il Crossgates mall.
Mi mancherà lo shuttle con i sedili imbottiti al mattino (quando sarò sulla 94 a Milano).
Mi mancherà il suono della risata di Sara e l'espressione di Marina quando sta per ridere.
Mi mancheranno le confidenze con Alice.
Mi mancherà viaggiare in giro per gli States con un borsone e la voglia vivere negli occhi, nello stomaco e nelle vene.
Mi mancherà l'odore di casa che mi è entrato nel naso e non se ne vuole andare.
Mi mancherà il mio cestino con le cose per la doccia.
Mi mancherà dire "Bitch please" ogni tre parole.
Mi mancherà ascoltare "Chicken Fried" il giovedì sera alla WTs.
Mi mancherà il suono di come la gente pronuncia "Hey wassup".
Mi mancherà capire ormai (quasi) tutto di cosa dicono i professori a lezione e le mie serie preferite.
Mi mancherà pure dire "What?" almeno tre o quattro volte quando parlo con i miei amici inglesi e irlandesi, e secondo come fare finta di aver capito alla quarta volta e ridacchiare nervosamente.
Mi mancheranno i quattro isolati a piedi fino al supermercato, ogni volta percorsi col naso all'insù a guardare le case o le foglie degli alberi.
Mi mancheranno le cene in pigiama, che sanno di amici, di calore, di parole e di angoli della bocca piegati all'insù.
Mi mancherà la sensazione di essere straniera ma un pò adottata.
Mi mancherà il senso di appartenenza a questa università il giallo e il viola, leggere USA Today al mattino come se fosse Repubblica.
Mi mancheranno i cereali con lo yogurt.
I waffles.
I quarantamila tipi di cookies e pringles.
Mi mancheranno un pò meno i vicini che corrono i skateboard alle quattro di notte per il corridoio.
Mi mancherà un pò meno il bagno in comune, in effetti.

Mi mancherà soprattutto la sensazione di essere parte di qualcosa, di qualcuno. Si essere entrata nella pelle delle persone che ho conosciuto nello stesso modo in cui loro sono entrate nella mia.
Mi mancherà tutto quello che vedo, ascolto, respiro, gusto e tocco ogni giorno.
Mi mancherà tutto quello che ho stampato in mente, negli occhi, nel naso.
Mi mancherà ogni minuto vissuto dall'altra parte del mondo.
Mi mancherà la sensazione di essere così viva, potente, vibrante.

Mi mancherà il mio angolo di America.

mercoledì 31 ottobre 2012

Quella volta che ho aspettato (invano) un uragano.

Comprare una cassa da 24 bottigliette d'acqua (e trascinarsele fino a casa a piedi con un'amica) e scorte di cibo di prima necessità (quali patatine, noodles da scaldare in microonde, oreo, cookies, crackers e banane) in previsione di un uragano: check.
Esperienza che in effetti non potevo perdermi.
Guarda te che culo.
Io e Marina (brasiliana, ndr), non avendo mai visto un uragano nella nostra vita, siamo andate a fare scorta di beni primari. Ci mancava solo la botola che portava al seminterrato e poi eravamo a posto.
Eccitate da una parte e spaventate nell'osso dall'altra.
Si sa che gli americani tendono a essere un pochino allarmisti, ma stavolta c'avevano anche un pochetto di ragione.
Cioè, ovviamente non qui.
Cartelli ovunque con istruzioni come: tieni a portata di mano un cuscino e una coperta, se parte la corrente evacua. Evacuo cosa? Dove vado sotto la pioggia al buio? Non ci era dato saperlo.
Altro consiglio: se esplode la finestra evacua. Cioè nel senso che può esplodere sul serio?
Togli la roba di valore dal pavimento. E sia.
Fatto sta che ieri pomeriggio eravamo in pieno mood pre-uragano: chiuse in una camera con degli oreo a guardare delle serie per poi addormentarci tutte insieme stile tetris. Una scorpacciata di cibo e poi altri oreo e patatine accompagnati da manicure e pedicure.
Quello che ci è arrivato di Sandy è stato uno sputacchio, alla fine.
Un bel pò di pioggia e vento, ma roba che a Savona quando c'è la mareggiata mi spavento di più.
Oggi sì, sono andata a Zumba e c'era un vento che mi portava via.
Anzi no, con il mio peso specifico non mi avrebbe mai portata via, ma avete capito.
Ma perchè non riesco a produrre un post che mi soddisfi e finisco per parlare della mia ciccia in esubero?

Comunque.
Qui di seguito vi allego le prove che il tempo non era bellerrimo.
In ordine, ieri e oggi.



E niente, come ogni tragedia che si rispetti vi ringrazio per avermi chiesto come stavo e se sarei sopravvissuta all'uragano, vi amo tutti. Grazie madre e padre che vi preoccupate per me e prima o poi un ictus vi porterà via perchè finirete nel panico e chiamerete Obama in persona.
Io poi ovviamente sono cretina e faccio la scema, ma ho seguito (per ovvie ragioni) quarantamila telegiornali, tutti i siti live della CNN e della ABC con le news e devo ammettere che le foto e i video di New York allagata e mezza al buio mi hanno sconvolta. Sarà perchè qualcosa come un mesetto fa ero lì, in quelle strade, a fare foto e a sentirmi al centro del mondo.
Ora, sappiamo che Sandy ha colpito almeno sei o sette stati, inondato completamente Atlantic City, devastato il New Jersey, ma New York ci fa più impressione.
Perchè lei è sempre stata lì, imponente, potente, elegante.
Luminosa, il faro della East Coast ma anche di tutti gli States, la città che ha saputo riprendersi dall 9/11 e ha ricostruito una torre ancora più alta, dal rinomato orgoglio americano.
Lei è sempre stata il centro del mondo.
La città che tutti sognano.
Perchè tutti in fondo la sognano.
La città che tutti vogliono vivere come nei film. Perchè lei stessa è attrice protagonista.
Lei detta le mode, i tempi, gli spazi.
Grande e grossa.
Messa in ginocchio da qualcosa che non avrebbe mai potuto combattere.
Ma solo subire, o tentare di prevenire.
Con la testa bassa, ora si lecca le ferite.
Diamine, le immagini della CNN sembravano quelle dell'inizio di The Day After Tomorrow.
Nonostante i mille allarmi almeno una ventina di persone sono morte, a Manhattan e in tutti gli stati colpiti.
L'America ancora una volta conta le sue vittime, e New York spicca tra tutte le città piegate da Sandy.





mercoledì 24 ottobre 2012

Quei due mesi da qualche parte del nord degli U.S.

Due mesi sono passati.
Più di sessanta giorni.



Sessanta.
Vi dirò, ormai ho preso un tran tran dormitorio-bus-college-mall-walmart-WTs (Washington Tavern, il ritrovo delle nostre sbronze finesettimanali)- dormitorio.
Non vado quasi mai a downtown, forse perchè per una volta che mi sono inoltrata qualche isolato (isolato..inizio proprio ad americanizzarmi) per andare in farmacia ho temuto davvero per la mia esistenza. Quartoggiaro è Via Montenapoleone in confronto, ve lo giuro.
I dettagli come al solito in privato.

Anyway.
Dicevo.
Ogni tanto mi scordo quasi di essere in America, tutto inizia ad avere quella forma e quei colori che associ a qualcosa di familiare, conosciuto, sicuro.
La fermata dell'autobus sotto "casa", la library, il pub a un isolato, il "pizza place" dove andiamo ogni volta a sbranare una fetta di margherita a due dollari alle quattro di notte.
La dining hall.
I bagni.
Persino i bagni.
Vi dirò, l'altro giorno ero in università e insomma sì, ci dovevo andare.
E volevo farla a casa.
Contando che il bagno in università è identico a quello di casa, dato che lo condividiamo, il pensiero ha di per sè poco senso.
Ma quel bagnetto insulso ormai è un pò casa.
Si, ridete pure.
Sto pensando di cancellare le ultime sei o sette righe ma se le ho scritte evidentemente sento il bisogno di condividerle con voi.
Pensieri profondi di un martedì sera qualunque.


Ah. Vi presento Furbo, il dito che mi è rimasto spiaccicato sotto una finestra venerdi.
Belle sfumature.
Si intonano con Halloween, questo verdino-violaceo tendente al colore di qualcosa che sta marcendo.
Perchè se una è furba, lo è fino in fondo.
Comunque, altro giro altra corsa all'health center.
Vi giuro che le infermiere mi riconoscono.
Una mi ha detto: mi ricordo anche che sei italiana. Sei sempre qui.
Son cose che fan piacere.
Ma del resto, un'ipocondriaca le cose se le tira anche un pò addosso, come mi dice sempre saggiamente il Danno.
Sarà il karma che fa il suo dovere.
Sarà che sono solo rincoglionita?




Ma passiamo a cose più interessanti.
Non riesco a smettere di fare foto a caso agli alberi e all'università.
Ma davvero, sono stupendi.





Qui sopra invece vi delizio con scorci della DINER dove abbiamo cenato giovedì sera per il compleanno di una di noi. Perchè siamo un pò camioniste inside. E perchè un mega hamburger più torta di compleanno a otto dollari in un posto che più americano non si può non potevamo perderceli.
Per la cronaca, sì, quello è il mio hamburger,
E sì, quelle sono cipolle.
Ve l'avevo detto che dentro di me, oltre alla cheerleader che mi sono mangiata, esiste anche un camionista con il tatuaggio a cuore e la scritta mamma sul braccio destro.

Nulla, non riesco a produrre niente di poetico stasera.
Posso però aggiornare la mia lista di scoperte americane.
A che numero ero arrivata?
Ah sì.
31. Ogni stagione è adatta per le ciabatte con i calzini e i calzoni corti. Anche quando io indosso sciarpa di lana e maglione.
32. Nessuno qui conosce la Moka.
33. Nessuno è mai stato in Europa. Un sondaggio da me condotto dimostra che tutti vorrebbero andarci ma è COSI' lontana. Tipo un altro universo. Della serie "Bella eh, ma lasciami guardare il football la domenica che del Colosseo e dell'Arco di Trionfo poco mi frega.
34. Cenare con un bicchiere di latte non è da pazzoidi.
35. Gli americani si urtano se gli scappa la cacca dopo la doccia. Per un attimo mi è sfuggito il perchè. Poi ho capito che LORO non hanno il bidet.
36. Qui se sei straniero ti fermano per parlare in autobus anche solo per sapere di dove sei e se ti piace l'America. Immaginate di chiedere a uno a caso un lunedì mattina di dov'è sulla metro verde a Cadorna. Come minimo se ne va indignato, come massimo vi spara un "ma fatti i cazzi tuoi".
37. I camerieri non si scazzano se gli chiedi di farti una foto al compleanno, te ne fanno due così puoi scegliere quella che è venuta meglio.
38. Pasta e pezzi di pollo qui è la massima ambizione. Mai vista in Italia in vita mia.
39. Qui nessuno fuma. Sigarette. Forse perchè costano 10 dollari a pacchetto.
40. Se non ascolti Drake o Lil Wayne fai cagare.

Niente, stasera partorire qualcosa che valga la pena di essere ricordato non è nelle mie corde.
Accontentatevi. 

E ascoltatevi questa canzone che sa di America come nessun'altra.
Zac Brown Band - Chicken Fried

"A little bit of chicken fried
a cold beer on a Friday night, 

a pair of jeans that fits just right,
and the radio oooooon"......

venerdì 19 ottobre 2012

La città che non dorme mai - Un anno dopo

Ebbene sì. Una domenica qualunque.
Due ore di pullman. 30 dollari andata e ritorno.
Una levataccia.
Ma eccoci di nuovo faccia a faccia, New York.



Praticamente un anno dopo.
Sono senza parole.
Anche perchè per New York ce ne sono sempre state troppe.
Credo sia la città più raccontata al mondo.
Ha senso che io vi descriva un'altra volta le luci accecanti di Times Square?
I brividi inquietanti mentre alzo la testa per scrutare la cima della nuova torre al posto del World Trade Center?
I brividi di eccitazione quando dal pullman ho visto ancora una volta quella manciata di grattacieli da lontano, un puntino azzurro che è Lady Liberty e la punta dell'Empire?
La sensazione di essere proprio lì, al centro del mondo, camminando per la Broadway?


Vi dirò, piano piano inizio a conoscerla, a comprenderla.
All'inizio è un gioiellino luccicante, uno di quei regali di Natale che da piccolo desideravi fortissismo e finalmente lo trovi sotto l'albero, in un pacco sfavillante.
All'inizio è spavalda, orgogliosa, nel suo vestito migliore.
Le piace mostrarsi.
Poi piano piano si lascia svestire, e riesco a comprenderne gli angoli.
Non sono la Broadway, Times Square, la Fifth Avenue.
Lei non è solo questo.
Ogni volta che vedo Times Square rimango a bocca aperta, certo. Ma ormai la conosco. Conosco le vetrine, i cartelloni, i taxi, gli odori.
Preferisco girare l'angolo, perdermi nelle viette di Soho.
Quelle piene di lavori in corso, tombini dai quali esce fumo denso e bianco in continuazione.
Quelle che puzzano di vino e di vita vissuta.
Quelle che mostrano la New York imperfetta.
Un pò in hangover.
Un pò come dopo una serata importante.
La New York struccata, con i capelli spettinati e gli occhi impiastricciati dal sonno.
La New York che le guide turistiche non ti mostrano quasi mai.
Le casupole strabiche appena dietro ai grandi grattacieli.
Le scale antincendio dei palazzi più vecchi.
I baracchini che vendono hot dog.
I barboni, probabilmente più numerosi che i taxi gialli.
La stazione dei pullman. Che in confronto Quartoggiaro è Versailles.
La fame. La povertà. La spazzatura di fronte ai ristoranti.
Tutto quello che non è abbastanza bello da essere esposto in vetrina nelle agenzie di viaggio.

La città che vive e pulsa sotto il vestito da sera.
La città che in fondo è umana come ogni città del mondo.
Che ha i suoi difetti e le sue contraddizioni.
Che passa dall'eleganza dell'Upper East Side e la sua parte di Fifth Avenue alla frenetica Midtown, con Times Square, gli uffici, fino ad arrivare a Wall Street, passando dalla viette di Soho, ai colori e alla modestia di Chinatown e Little Italy.
La città che ne ha per tutti.
Che vale la pena di essere respirata non solo nei neon di Broadway.
Ma anche nella puzza di vino e di marciapiede in una domenica piovosa di ottobre.



Vaneggiamenti aerei

Da vera poetessa di alto spessore culturale, mentre Lui si scoppiava un film da Oscar in stile fantascientifico sull'aereo, ho scritto questo post nelle note, promettendomi di pubblicarlo non appena arrivata. Tutto vostro.

Dopo quattro mesi e dieci giorni, di nuovo su un volo Delta.

Sembra ieri.
Seduta vicino ad un'americana che ha mangiato tutto il suo cibo più quello del marito, tanto che volevo offrirle pure il mio budino. 
Da sola, spaventata e elettrizzata allo stesso tempo.
Sembra ieri e invece é oggi e sto già tornando indietro. 
Io e praticamente un infante. 
8 chili tondi tondi.
Diciamo che quest'America mi rimarrá addosso per un bel pó.
Una settimana fa ho detto addio ad Albany.
Come al solito, sembrava che mi avessero anestetizzata.
Qualche giorno prima, salutando Marina, avevo i lacrimoni come i bimbi quando diventano tutti rossi e bramano il ciuccio.
Quando é toccato a me tutto é volato col tasto forward. 
La mattina della mia partenza me la ricordo come passata in un soffio.
Un attimo prima ero nelle mie lenzuola zebrate a ronfare allegramente e un momento dopo ero sul taxi. In mezzo ci sono state due ore di lotta contro il tempo e lo spazio.
Diciamo che quattro mesi di vita se sei me hanno bisogno di tanta roba.
Se poi hai dei problemi a controllarti quando vai al mall, ancora di più.
Ho dovuto abbandonare a Marina, nell'ordine: la mia borsa dell'acqua calda, la brocca per scaldare l'acqua, le lenzuola, le coperte, il cuscino, duemila attaccapanni e le mie preziose salviette per il sedere dei bimbi.
E nonostante l'abbandono le mie due valige avevano lo stesso il peso specifico del piombo. 
Un grazie a Stephen che se le é trascinate giù dalle scale.
Rischiando l'ernia ad ogni passo.

Insomma.
Ho chiuso la porta della mia stanza velocemente, un ultimo sguardo per controllare se avessi lasciato qualcosa di basilare, tipo, che ne so, il passaporto.
Niente sguardi languidi che durano ore, niente carezze al legno della scrivania (?), niente mano appoggiata sul vetro dalla finestra guardando fuori.
Dite che ho visto troppi film?
Il resto lo sapete già.
In un attimo ero nel taxi.
E l'attimo dopo nella stazione dei pullman.
E poi sul bus.
Che ha deciso di fare una deviazione passando dal Bronx.
In ogni caso, passare il Natale a New York mi ha un pó distratta.
Tipo ora mi sento come se fossi arrivata qui il 20 dall'Italia.
Poi ripenso alla fatica che ho fatto per trascinare le valige in metro fino all'aeroporto e mi ricordo quanta roba avevo.
Possibile che questo semestre stia già svanendo?
Che stia giá sfumando nei ricordi?
Che stia lasciando un gusto dolce in bocca, come quei momenti preziosi dell'infanzia, anche se non ti ricordi esattamente cosa é successo?
Le altre, che sono già a casa da qualche giorno, dicono che una volta messo piede oltre la soglia di casa sembra di non essere mai partite.
Buffa la nostra memoria.
Più tenta di afferrare un ricordo, di renderlo nitido, di disegnarne i contorni, più il ricordo sfugge.
Si deforma, si frantuma e a noi rimangono dei pezzi.
Per esempio, adesso tutto mi sembra compresso.
Non ricordo esattamente la lunghezza dei mesi. 
Novembre é volato come esattamente le prime due settimane di dicembre.
Dove sono finiti i giorni?
Come hanno fatto a contrarsi e sgusciare via così?

Ma i miei sensi funzionano meglio di qualsiasi tipo di sforzo mentale per ricordare.
E' facile con la vista: ricordo perfettamente ogni momento attaccato ad una fotografia, mentre i giorni in cui non ne ho fatte sono più sottili, più impalpabili.
Allo stesso modo le canzoni sono attaccate a dei momenti.
Non potrò più ascoltare "Work Out" senza ricordarmi che era la sveglia di Marina.
Né "Mr. Wonderful" senza pensare a me Sara camminando a ritmo di musica per Western Avenue.
Né "Die Young" senza ricordare la sera del compleanno di Alice a bere qualche birra nella sua stanza. 
Né Gangnam style senza ricordare quella sera in quel bar anonimo nel Wisconsin, a ballare con nuovi amici con una spensieratezza che chissá se ritroverò mai. 
Né Alright di Pitbull senza pensare allo sculettamento mio e di Marina a zumba. 
Anzi, la sto ascoltando in questo momento e sto iniziando a dondolare a destra e a sinistra.
Credo che il mio vicino intellettuale alla mia sinistra sia già spaventato.
E abbiamo ancora sei ore di volo.
Non riesco ancora a capacitarmi del fatto che tra sei ore planerò nella terra dove tutti parlano italiano.
Sembro demente, me ne rendo conto.
Ma essere circondata da gente che parla un'altra lingua all'inizio fa strano, poi ti abitui. A crearti il tuo guscio, dove loro non possono capirti ma tu puoi capire loro, puoi interagire ma allo stesso tempo distanziarti.
E a casa questo tipo di privacy sconosciuta non si può avere.
Comunque.
Dicevo.
L'olfatto rimarrà sempre il senso che mi emoziona di più. 
L'altro giorno camminavo per New York e per un attimo mi é arrivata un'ondata di odore di lavatrice.
Lo stesso odore indescrivibile di quando scendevo nel seminterrato con il mio sacchetto di roba da lavare e il profumo caldo di pulito mi inondava le narici. 
L'odore di camera di Marina allo stesso tempo.
Un misto del suo profumo, delle sue maledette candele profumate (confiscate dopo tipo due settimane) e del suo detersivo.
L'odore che c'era nelle classi.
L'odore del profumo di Lorraine ogni volta che ci abbracciavamo per dirci "I will miss you so much"
L'odore delle salviette profumate che usavo per spolverare.
L'odore di fritto che mi rimaneva addosso ogni santa volta che scendevo a mangiare. 
Ecco quest'ultimo spero di non sentirlo per un pó.
L'America mi ha lasciato non so quanti ricordi, mi ha vista crescere velocemente in quattro mesi (e NO, non solo in larghezza, maledetti malpensanti) e grazie a lei d'ora in poi guarderò il mondo con occhi un pó diversi.
Un pó piú globalizzati.
Un pó piú grassi.
Un pó piú "yo!"
Un pó piú grandi.

Ed é il regalo più bello che questo paese potesse lasciarmi. 

Are you coming home?


Cause di forza maggiore (leggi: impacchettamento, addii e mancanza di wifi) nessun post all'ultimo momento prima di lasciare quel buco che mi ha accolta per ben 4 mesi.
Forse é stato meglio così.
Primo post dal mio nuovo bambino. 
E adesso faccio i conti con l'ultima notte a NYC. Ultima notte negli States. 
L'ultima volta che ho dormito nel mio letto é stata la notte del 17 agosto. 
Per quattro mesi mi sono addormentata in letti sconosciuti, uno dei quali era quasi diventato casa. 
Il mio odore ci era rimasto impresso sopra. Non nelle lenzuola. Proprio nel letto. 
Nel materasso, nelle doghe, nel legno. 
La stanza 306 avrà per sempre un pó del mio odore, non importa chi ci dormirà. Chissá chi, poi. 
In ogni caso, sono nella mia minuscola stanza nel cuore di Manhattan, oggi ha nevicato potentemente e mi sono bagnata fino all'osso. Tento invano di far entrare tutto nelle valige. 
Sono così agitata che non so descriverlo.
Il semestre che ho appena passato é così vivido nella mia mente e allo stesso tempo così sfocato, come fosse stato tutto un sogno. 
Solo una settimana fa salutavo tutti.
Mi aspettavo singhiozzi, lacrime, nasi rossi e mascara colato.
E invece, composta e sorridente, ho abbracciato tutti, uno per uno, con la promessa di rivederci presto.
Sono salita sul mio taxi, unito pollici e indici a forma di cuore dal finestrino, e guardato per l'ultima volta tutti loro fuori dall'Alumni, con un sorriso.
Ok, ho iniziato a piagnucolare appena girato l'angolo.
Ma per pochino.
Non ho ancora realizzato il tutto, credo.
Forse penso solo di prendere il pullman che mi riporta lí, domani.
invece che un volo Delta che mi recapita a Malpensa.

Quante parole che avrei da dire, quanto sonno che ho in questo momento e quanto groppo in gola che mi si sta creando. 
Ho troppi pensieri ingarbugliati. Mi toccherà sbrogliarli.
Prima o poi.
Non adesso.
Fare i conti con troppe cose contemporaneamente non é da me.

Le metto tutte in stand by per qualche giorno.
Finché non saró rincoglionita dal jet-lag e odore di casa.
Allora sí, che sará il momento di fare i conti con i miei nodi alla gola.



Are you coming home?

#leaveamessage




Mi faccio promotrice di una cosa carinissima, a cui ho partecipato anche l'anno scorso.
Se siete anche solo curiosi, cliccate proprio qui che non fate fatica e questa iniziativa è senza sforzo ma di grande effetto.
Come dice l'hashtag, #leaveamessage è un modo per sorridere anche quando le cose vanno in mer non proprio come vorremmo.
Si tratta semplicemente lasciare dei bigliettini in giro per la vostra città, in posti facilmente raggiungibili, con frasi positive, buffe, che facciano ridere, che facciano scompisciare il prossimo.
Insomma, qualcosa di carino che vorremmo che fosse detto a noi.
Per dire, non "sono solo le otto di mattina, hai le occhiaie ma la tua giornata può ancora peggiorare, potresti tipo pestare una cacca con le tue Loboutin nuove".
Ma qualcosa del tipo "Dopo l'ufficio premiati col calendario della Santarelli, te lo meriti". "Regalati un massaggio questo weekend, il tempo dedicato a te è sempre il migliore"
Insomma, capito il concetto, no?
Ficcateli in un libro della biblioteca, tra i giornali al bar, in una cassetta delle lettere, sui banchi di scuola.
L'unico senso che ha questa iniziativa è sorprendere positivamente.
Quest'anno l'iniziativa sostiene anche l'Ospedale Meyer, per sapere tutto vi rimando al link di cui sopra.

Io lo faccio da qui.
Voi fatelo a casa, anime aride che non siete altro.
Trovate dieci minuti per scrivere due frasi carine, e spargete un pò di buonumore nel mare di cinismo in cui ci troviamo in questo periodo.
Combattiamo la nostra pigrizia e la nostra mancanza di iniziativa con questa trovata carinissima.
E' gratis e comporta sforzo pari a zero.

Se avete twitter, twittate l'hashtag #leaveamessage e il luogo dove avete lasciato il bigliettino, e la città, così che possa essere trovato più facilmente.

Spargete la voce, condividete questa pagina o il link a cui vi ho rimandati, e piegati quegli angoletti della bocca all'insù.


L'America che (mi) cambia

Questi ultimi giorni scorrono veloci ma allo stesso tempo lenti, trascinati, come quando al mattino ti vuoi godere quegli ultimi minuti di tepore nel letto stropicciandoti sotto le coperte.
Ecco, questa è esattamente la sensazione che io, e credo tutti, stiamo provando.
Scrivo dal tavolo della stanza comune, procrastino la mia doccia (finirò a farla ad un'ora indecente tipo le due), puzzo di patatine fritte e cibo cinese.
Perchè stasera ho fatto cena due volte.
Una alle sei tornata dal mall (ve l'ho detto che qui sono strani, io alle sei a casa non ho ancora nemmeno preso l'aperitivo), e una adesso. Ma siccome adesso la dining hall è chiusa, abbiamo ordinato cinese.
Può una persona avere meno ritegno di me nel cibo?
Non credo.
Stiamo facendo finta di studiare.
O almeno, io.
Mi sfugge come mai qui un esame può essere un paper.
Va bene, forse è il caso che mi spieghi un pelino meglio.
Ogni corso è semestrale, il tuo voto è la somma di puttanate come quiz, partecipazione, presenza (le lezioni sono obbligatorie), test, presentazioni, assignments, test.
Ha un vago senso.
Anche se l'esame finale a dicembre vale tipo il 15% del voto.
Ma il bello è che per alcuni corsi gli esami non esistono.
Il mio corso di letteratura ha due cosiddetti esami. Uno a metà semestre e uno alla fine.
Entrambi sono sottoforma di take home exam.
Ovvero, un saggio di una decina di facciate, sui libri che (non) ho letto in classe.
Cioè, ricapitolando.
La presenza è obbligatoria. Punti pieni.
Niente presentazioni per questo corso.
Due midterm da scrivere a casa.
Il tempo a disposizione è una settimana.
Non cinque ore.
Una settimana.
Niente esame.
Questo vuol dire niente ripassi notturni, niente ripetere per ore a madre, padre, amici, fidanzati, cani, gatti.
Vuol dire niente cagotto nelle sedici ore che devi aspettare prima di dare il tuo orale.
Niente sensazione di svenimento/vomito imminente/bisogno di un pannolino nel momento in cui il professore chiama il tuo nome.
E' il paradiso universitario.
Per un altro corso ho avuto l'esame, devo ammetterlo.
Ma ho avuto le domande una settimana prima.
No, non le ho rubate.
Il professore non voleva tenderci una trappola o cosa, ma solo verificare che avessimo capito i punti critici del corso.
Così ci ha dato le domande, tre, molto ampie, e abbiamo dovuto sceglierne due.
La settimana dopo abbiamo dovuto rispondere in due ore alle domande scelte.
C'è gente che ha preso D.
Che è tipo un 18 scarso.
Io non sono un genio e passo la maggior parte del mio tempo a cazzeggiare, come avrete capito.
Ma quando c'è da studiare il mio impegno ce lo metto.
Magari faticosamente, eh.
Però la mia porca figura riesco a farla quasi sempre.
Quindi sono qui, che non ho ancora le domande per i miei take home exams, a passare il tempo.
Mangiando, ovviamente.
E comprando.
Ogni tanto dò uno sguardo all'armadio, il letto, i cassetti, e alle mie due valige.
Alterno lo sguardo parecchie volte.
Ma non esiste nessuna legge della fisica che mi rassicuri.
Tutta la mia roba non entrerà mai in quelle due valige.
E il momento di impacchettare tutto è sempre più vicino.

Mioddio, non fatemi pensare al momento in cui chiuderò la porta della stanza vuota per l'ultima volta.

Ps. E' arrivato anche il momento fescion blogger.
Chiamatemi pure la Ferragni dei poveri.
Non ho resistito e ho comprato due rossetti della Mac oggi.
Che in Italia costano na fucilata (lo so perchè ho controllato su internet, ho messo il rossetto tre volte nella mia vita credo.) ma qui sono decisamente più cheap.
Un rosso chiamato Ruby (tutto un programma) e un rosa shocking firmato Nicki Minaj (sta andando a ruba! Affrettati! Mi disse con testuali parole la commessa).
Questi quattro mesi hanno contribuito alla mia crescita, e a capire come anche le piccole cose cambiano in un soffio.
Qui ho sperimentato anche il mio debutto nel mondo del makeup che conta.
Quelli che si chiamano i traguardi di una vita, insomma.
Avevo un rossetto, una volta. Pagato tipo due dollari non so dove.
Di quelli che se li prendi in regalo nei giornaletti da adolescente rischi di prenderti pure una malattia.
Non sono mai andata oltre il mascara di Maybelline e il phard di Deborah.
Ora metterei il rossetto di Mac pure per andare al cesso.
(Come vedete la finezza che mi contraddistingue non è mai cambiata. Rassicuratevi)
Quindi ho trovato un nuovo modo per spendere i (non) miei soldi.
Padre, mi leggi?

Sgoccioli.




13 giorni rimasti ad Albany.
20 negli Stati Uniti.
Scrivo come al solito dalla mia vecchiotta scrivania, Waterbury Hall, stanza 306.
Dio come non dimenticherò questo loculo dalla finestra che non riesco mai ad aprire, (e quando ci riesco mi strappo due o tre muscoli della spalla), dal materasso foderato da qualcosa di lucido e scivoloso così le mie lenzuola di microfibra alla sera sono perfette e al mattino sembra che otto gatti abbiano giocato nel mio letto, (Badate che ho detto gatti e giocare. La mia fantasia sarebbe potuta andare molto più lontano), dai cassetti perennemente incastrati che una volta a forza di tirare mi è venuto via tutto.
Mi mancherà chiamare questo posto casa, tornarci dopo un weekend via e accasciarmi sul letto come quando si torna davvero, a casa.
Come vedete la settimana scorsa ha nevicato.
Prima e (chissà) ultima nevicata che abbiamo visto ad Albany.
Era esattamente la notte tra il 30 novembre e il primo dicembre, per essere precisi era l'una di notte e noi fuggivamo dall'house party di fronte al dormitorio perchè era arrivata la polizia.
Ehm.
Poco poetico lo so.
Ma divertente come non mai, posso assicurarvelo.
Abbiamo giocato nella neve in collant e cappottino autunnale all'una di notte.
Roba che se lo sa mia madr...Ops.



Mi mancherà persino passare la mia Suny Card all'entrata a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Tornare a casa dopo due fette di pizza da Di Carlito's, o una barcata di noodles dal cinese all'angolo.
Nel weekend abbiamo progettato e fatto realizzare delle magliette tutte uguali con il motto di questi quattro mesi.
Qualcosa di dolce e zuccheroso? Tipo vi vorrò bene per sempre?
Non esattamente.
Eccovele qui.


Insomma, ognuno ha i suoi modi per dirsi ti voglio bene, no?
Voi poi non lo sapete, ma dopo aver scritto queste due righe e postato la foto sono rimasta tipo trenta secondi a scrutarmi. Nella foto, dico.
Non esiste una parte di me che non sia ricoperta da un sottile strato di grasso.
Tranne la faccia, quella è direttamente farcita da due ghiande nelle guance come se fossi Cip.
O forse Ciop. Quello un pò più rinco.
Ringrazio di aver preso la decisione di andare in America nel primo semestre, così quando torno non sarò costretta a sfoggiare bikini inglobati nelle mie nuove e sfavillanti maniglie dell'amore, ma trascinerò la mia ciccetta in esubero ben nascosta dal parka.
La domanda del secolo è: tornerò mai normale?
Non ho idea della quantità precisa di chili (ma tranquilli: il simpatico ometto che io chiamo Padre vuole portare una bilancia in aereoporto il giorno del mio ritorno, giusto per essere sicuri), ma ho constatato che si possono avere rotolini anche dove non pensavo potessero esistere.
Tipo dietro al collo quando piego la testa.
O sulle spalle.
O sulla schiena quando mi giro a destra e a sinistra.
A voja di fare zumba, avrei dovuto darmi al boot camp, maledizione.

Comunque, in attesa di sapere se mi ci vorrà una rapida lipo o semplicemente qualche mese di cibo normale,
posso dire di essere ingrassata e felice.

Ps. mi dispiace davvero tanto per voi che dovete sorbirvi il mio blaterare di ciccia.



Guardo indietro.

Due e ventisette di mattina.
Sono tired as fuck nonostante abbia anche fatto un pisolino di mezz'oretta tra una lezione e l'altra oggi.
Eppure la mia insonnia cronica mi tiene sveglia.
Da qualche giorno qui aleggia un'aria di tristezza mista a rassegnazione, mista a stanchezza mista a voglia di strafare perchè tra due settimane veniamo rispediti da dove veniamo e chi si è visto si è visto.
E quindi via alle frasi strappalacrime sulle agende durante le lezioni, via all'ennesima birretta con commento annesso "Oh pensa quando torniamo, il primo giovedì a casa ti scrivo su whatsapp per vederci alle dieci alla WTs".
Ieri da sola sul pullman, con le cuffie nelle orecchie, due o tre canzoni scoperte qui (che a voi a casa immagino facciano cagare, secondo un mio rapido sondaggio), che mi ricordano tanti stupidi momenti vissuti qui, mi è scesa una lacrimuccia.
Una, giuro.
Stanno per finire i 4 mesi più incredibili della mia vita.
Una realtà che non immagino di poter vivere, eppure eccomi qua, a due settimane dalla fine.
Un capitolo emozionante, meraviglioso e spaventosissimo della mia vita sta per finire, e in bocca rimane quel sapore dolceamaro che segue sempre un addio, o un arrivederci.
Non sono mai stata brava coi saluti.
Non riesco a staccarmi dalle persone, manco dalle cose, figuratevi.
Potessi conserverei tutto.
Sono devota al cambiamento, mi annoio presto e facilmente.
Il cambiamento è normale, naturale, vitale.
Il cambiamento ci fa cambiare punti di vista, ci fa scoprire nuovi motivi inaspettati per sorridere.
Ma quando coinvolge il salutare delle persone, proprio non mi va giù.
Non accetto la separazione.
O almeno, la accetto con il tempo.
Non sono capace a separarmi di netto. Un abbraccio veloce e via.
Sono una di quelle persone che in aereoporto abbraccia ventisette volte, e poi ancora un'ultima volta.
E poi ancora una.
E rischia di perdere il volo.
E non sa mai quando tacere, e smettere di dire cose banali e sdolcinate.
E non sa chiudere un rapporto, un periodo, una conversazione senza tirarla avanti senza senso.
I tagli netti non sono per me.
Ho sempre camminato in punta di piedi nelle vite degli altri, chiedendomi in continuazione cosa fosse meglio dire o non dire, chiedendomi come indorare la pillola, quando invece la maggior parte delle volte la pillola non va indorata ma accettata così com'è.
E devo imparare ad accettare questi saluti per quello che sono: la fine di un periodo, non di innumerevoli rapporti importanti.
I rapporti cambieranno, sentirò la mancanza.
Ma invece di lamentarmi della fine, dovrei già sorridere per un nuovo inizio.
Fatto di ritorni a casa, di abbracci, di mondo conosciuto.
E di pianificazioni di viaggi in giro per il mondo.
Perchè sono sicura che le nostre strade si incroceranno.
Presto o tardi.
Un legame come questo resiste al tempo e allo spazio.
Per ora è l'unica certezza che ho, prima di partire.



Datemi un Tacchino. Ovvero il mio primo Thanksgiving.



Mi sto maledicendo mentalmente perchè sono passate due settimane dall'ultima volta che ho prodotto qualcosa di leggibile, e avrei voluto scrivere molto di più. Soprattutto perchè tra meno di un mese porto via baracca e burattini e ritornerò a scrivere di...di che? Della metro di Milano e della mia Hyundai Atos del 99.
Quindi vi sto per rifilare un post epico.
Non tanto per quello che scrivo, ma per quello che ho vissuto.
Come sapete qui in Obamalandia festeggiano il Thanksgiving.
E a tutti viene in mente un mega tacchino e cibo a volontà.
E fondamentalmente è quello.
Ma la magia di questa tradizione mi ha travolta come la mattina di Natale quando avevo dieci anni.
Ma partiamo dall'inizio.
Come al solito mi sono portata dietro la mia famiglia adottiva, ovvero Sara e Marina.
Lunedì notte abbiamo dormito tre ore, alle sei eravamo di fronte all'entrata dell'Alumni ad aspettare il taxi.
Freddo, sonno, occhi gonfi, un borsone a testa e ancora la bocca impastata dal sonno. Forse il segno del cuscino sulla guancia. Ma l'aria che ho respirato in quel momento, l'aria di partenza, di viaggio, di novità, di scoperta, di avventura, di nuovi volti, voci e risate, di abbracci e voglia di vivere, non la dimenticherò mai.
Fatto sta che mi sentivo parecchio poetica anche in quel momento, su quel sedile del solito pullman che ci stava portando a New York alle sette di mattina. Quindi ho avuto la forza di sbloccare il mio iPhone (vedete a cosa serve, voi che non capite chi è slavo della tecnologia?) e scrivere una nota chilometrica sul viaggio, le amicizie, il senso della vita e tutti i luoghi comuni che vi vengono in mente.
Ma è davvero una dolcezza.
Quindi la posterò.

20 novembre. 7:58
Nemmeno le otto di mattina. Tre ore di sonno. Musica nelle orecchie e sole che sorge. E tutto quello che mi viene in mente è che sono fatta esattamente per questo. Per spogliarmi di tutto. Mettere due vestiti a caso 
(falso, falsissimo: ci ho pensato per due giorni a lezione, a cosa portare.) in un borsone e muovermi. Partire. Viaggiare. Vedere. Questo paese mi strega, mi chiama e non posso non rispondere. Sto guardando il cielo, ora. E' enorme (Va bene, forse era meglio rileggerlo prima di salvarlo sul cellulare. La banalità fatta a nota). Tutto qui sembra più grande. Sconfinato, non prova mai a soffocarti. Abbraccia. Accoglie. Gli alberi, le strade, le foglie, i colori. I colori sono più grandi, più forti, più penetranti. Ti entrano dentro e non puoi farci nulla. I colori del cielo sono forti, vivi, inebrianti. Tutto fa venire voglia di muoversi, correre, volare, scoprire, scoprirsi. Sono su un sedile di un pullman in mezzo al nulla tra Albany e New York, con due persone che non conoscevo fino a tre mesi fa e ora non riesco a immaginare il momento in cui dovrò separarmi da loro. Mi sento come se non avessi fatto altro nella vita. Da sempre. Non mi sono mai sentita così viva. Così piena di vita, di voglia di fare, i miei occhi non ne hanno mai abbastanza. Mi riscopro con gli angoli della bocca piegati all'insù. Senza accorgermene. Mi lascio andare. Non ancora del tutto. Spesso tendo ancora a controllare, a trovare dei punti fermi, a volere una sicurezza. Ho sempre avuto bisogno di avere tutto sotto controllo. Ma qui è una sfida continua, e io vinco spesso. Ma anche perdere non è male.

Insomma, una perla di poesia, neh?
Cosa volete, dopo tre ore di sonno e un panino al formaggio e salame alle sette del mattino?
Abbiamo volato da NYC a Chicago. Due ore e mezza e tre o quattro stati dopo siamo atterrate nella Città del Vento. Chicago è stupenda. Sono senza parole. Se uno sogna New York guardando Gossip Girl, non ha idea di cosa si perde non sognando Chicago.
Chicago è una distesa di casette e casupole che diventano un gruppo di grattacieli affacciati sul lago. Che potrebbe benissimo essere il Mediterraneo.
New York è e sempre sarà New York.
La città di cui mi stampavo le foto dal mio pc windows 95 e me le appendevo al muro.
Sarà sempre la città in cui ho visto camminare Carrie Bradshaw con le sue Manolo da capogiro.
Ma Chicago ha un fascino che porta via il fiato.
Downtown è decisamente più piccola di Manhattan, più concentrata.
Ma ha ampie strade, negozi ad ogni angolo, palazzi moderni ma anche dal sapore europeo.
Non ti dà quella sensazione di fretta, di vite che corrono frenetiche, di persone che si scontrano uscendo dalla metro o che litigano per un taxi.
Non si sente quell'odore persistente e acido di vino che ti entra nelle narici e non se ne va più.
Chicago è una metropoli che ti mette a tuo agio. Non ti spinge, non ti mette fretta nella rush hour.
A due passi dal Loop metti piedi in Millennium park.
Rimani affascinata dal Bean che riflette tutto il mondo alle tue spalle.
Fai due passi a bordo lago. Ti perdi tra il cielo, il vento, il verde del parco e l'argento scintillante dei grattacieli. Provate a immaginare grattacieli di cui non vedi la fine e un molo enorme che si perde in un lago grande quanto il nostro mare. E' qualcosa di incomprensibile per noi.








Dopo un giorno e mezzo a Chicago abbiamo di nuovo impacchettato tutto e via, dei noodles in una scatola e pronte sul treno per Milwaukee.
Altro giro, altro stato.
Siamo state prelevate direttamente alla stazione da Matt, e via in direzione Grafton, a una ventina di minuti da Milwaukee.
Non appena abbiamo messo piede nella sua casa persa in mezzo agli alberi spogli, non appena abbiamo abbracciato i suoi genitori che ci hanno accolto a braccia aperte, abbiamo sentito aria di famiglia.
Una casetta curata in ogni dettaglio, una casa che sa di famiglia, di cose vere.
L'ospitalità di queste persone non la dimenticherò mai.
Credo che il vero padrone di casa riesca a fare in modo che il proprio ospite si senta davvero a casa, e non solo un ospite che ha paura di toccare qualsiasi cosa per paura di rovinarla.
E si, loro sono stati padroni di casa perfetti.
Dopo pochi minuti ci sentivamo già a casa.
Ci hanno accolte senza problemi, per uno dei giorni più importanti e intimi dell'anno.
Abbiamo aiutato Linda (la mamma) a preparare l'apple crumble, abbiamo chiacchierato e raccontato le nostre vite come se ci conoscessimo da sempre.
Abbiamo abbracciato ogni parente, abbiamo sorriso ad ogni complimento, abbiamo riso ad ogni battuta.
Abbiamo visto il tacchino fumante uscire dal forno.
Abbiamo pregato insieme a loro. Abbiamo ringraziato per il cibo.
Mi ci vedete, voi, a dire la preghiera prima di mangiare?
Eppure lì, in quel momento, mi è sembrata l'unica cosa sensata da fare.
Immergersi dentro culture diverse dalla tua ti fa capire che non sempre hai ragione.
E soprattutto che non sempre esiste un giusto o sbagliato, ma che la vita è molto più flessibile e malleabile, che i confini non sono così netti e che muoversi tra una barriera e l'altra è spettacolare.
Non ho mai dormito meglio in quel letto preparato con amore, che sapeva di lenzuola lavate di fresco e coperte di una nonna che le ha conservate con cura.
Non ho mai apprezzato così tanto un caffè solubile al bancone di una cucina.
Non mi sono mai sentita così serena a più di settemila chilometri da casa.
Due giorni di dolce far niente, di cibo, di football, di maratone di film e di tenerezza in famiglia.
Sarà che mi è venuta in mente la mia, di famiglia, sarà che mi hanno dato l'impressione di essere davvero uniti, sarà che sono lontana da casa, ma non mi sono mai sentita così tanto a casa in questi tre mesi come in quella cittadina nel mezzo del Wisconsin.


Dopo due giorni siamo ripartite.
Tante cose in più nel cuore, un velo di tristezza nel cuore negli abbracci.
Chissà se ci rivedremo ancora.
Nel viaggio di ritorno a Chicago non sono riuscita a dormire.
Ho scritto una nuova nota.

23 novembre. 10:26
Altro mezzo di trasporto, altro Stato, altra alba. Sono sul treno che torna a Chicago dopo due giorni di America pura a Grafton. Immersa nel nulla, fattorie con granai stile Clark Kent, casette da set di Desperate Housewives. Ho amato il MidWest, con il suo accento morbido e comprensibile, molto meno ritmato di quello di New York. E' quando inizi a distinguere gli accenti che ti senti davvero potente, fuck yeah. Scusate. Dicevo. Ho amato il MidWest per il suo adattarsi perfettamente al mio concetto di America. L'America che va oltre la metropoli, quella che si nasconde in casette di legno, in dettagli, in ghirlande di foglie secche, in bandiere con tacchini, in lucine di Natale attorcigliate intorno ai corrimano dei portici delle case. Ho amato il MidWest per la sua aria di fresco, di aperto. Per i sorrisi della gente che ho incontrato e mi ha ospitato. Per la gentilezza e la cura con cui sono stata trattata, una sconosciuta a casa loro. Ho passato un giorno del ringraziamento da sogno. Ho sorriso emozionata ad ogni passo della cottura dei piatti. Ho abbracciato parenti che non vedrò probabilmente mai più. Ho guardato dentro occhi che forse non incrocerò più ma le sensazioni che mi hanno dato non le dimenticherò mai. Mi sento anche io di ringraziare. In questo momento sono così ubriaca di cibo, affetto, sorrisi, abbracci, e sonno che snocciolerei una lista infinita.
Che parte dai miei genitori. Che mi hanno dato la possibilità di essere dove sono. Che nonostante le mille paure hanno stretto i denti e mi hanno lasciata andare. Va avanti con tutte le persone che mi sono accanto da casa, vicine ma lontane. Con chi mi ha sempre supportata, anche con i miei deliri. Un grazie gigantesco alle due persone che mi hanno coccolata come se fossimo amiche da sempre, Sara e Marina. Con loro le parole spesso non servono, sappiamo benissimo quando tacere.
Ringrazio chiunque sia capitato sulla mia strada in questi tre mesi, perchè ha contribuito a spogliarmi di tante mie paure e a rendere il mio sorriso meno insicuro.
Ringrazio di avere la possibilità di farmi entrare tutto nella pelle, di vivere quello che ho sempre immaginato dall'interno. Di capirlo. Di rigirarmelo tra le mani come un giocattolo e scrutarlo con la curiosità di un bambino. 
Ringrazio me, perchè non ho più paura di superare i miei limiti. Perchè la sensazione di guardarsi intorno non ha paragoni.

Siamo ritornate a Chicago. E questo è quello che abbiamo trovato.




Per finire, ho trovato un'ultima nota.
Stavo guardando l'alba dall'oblò. Sul mio volo delle 5.45.
Stavo tornando a quella che per questi tre mesi è stata casa.

24 novembre. 6:38Sei e trentotto. Guardo a destra e vedo nuvole pannose, stringo gli occhi verso il sole che ha appena fatto capolino dalla distesa bianca e increspata. Ho dormito tre ore.
Posso vedere i miei occhietti stanchi riflessi nello schermo del telefono.
Una figa, insomma.
Il nostro Thanksgiving break è quasi finito e torniamo a casa cariche di nuove cose.
Abbiamo messi piede nella Willis Tower. 103 piani. Immaginatemi nello sclero dell'altezza. Ma mi ha tolto il fiato. Il mondo visto dall'alto ha tutto un altro gusto. Un pò come guardarlo da questo oblò. Paradossalmente è uno dei pochi posti dove mi sento al sicuro. Quassù, nel silenzio. Mentre le altre dormono e io mi perdo nelle tonnellate di stupidaggini che ho nella testa e nei colori di una mattina di novembre oltreoceano.

Questo è tutto quello che sono riuscita a produrre sull'aereo.
Che è tanto con sole tre ore di sonno alle spalle.
Ma la cosa stupenda è che ripartirei domani mattina, senza una meta, senza un albergo, senza nulla.
Solo con la voglia di fare che mi accompagna sempre e le mie due compari.




E l'iPhone. Ovviamente.

La forza dell'ormone

Sarà che sono più tonda e si sa, più ciccetta hai più ormoni gironzolano indisturbati nel tuo corpo, sarà che mi sono autodiagnosticata un bipolarismo cronico, sarà che sono donna e per definizione fuori di testa molto sensibile, ma stasera c'ho la malinconia nell'anima.
Di casa?
Non esattamente.
Di qui.
Ieri sera eravamo al pub, IL pub, il nostro. La WTs.
Avevo anche un esame di francese oggi, in cui ho dovuto registrarmi per 3 minuti su di un Mac. Parlando in francese. Ma la cosa bella è che era un video.
In ogni caso, eravamo tutti lì.
Un'amica irlandese venuta qui per la settimana partiva oggi e volevamo salutarla.
Egnente, immaginatevi che già sono triste di aver salutato lei dopo una settimana, figuriamoci tutti gli altri.
Poi il fato, il destino, il karma e il feng shui messi insieme hanno fatto passare alla radio questa canzone:

Vitamin C - Graduation

Vi consiglio di ascoltarla soprattutto se siete dei nostalgici degli anni novanta e dei licei alla Dawson's Creek.
E guardatevi il video perchè l'abbigliamento (americano) anni novanta merita non poco.
Il testo in poche parole parla di una classe di liceo che si separerà dopo 5 anni.
Finisci il liceo, non hai la più pallida idea di cosa tu abbia studiato a fare, di cosa tu voglia fare nella vita ma ti senti sul tetto del mondo.
Quando hai 18 anni, una rivoluzione nella mente, una ribellione nel cuore e una hola nelle mutande.
Ups.
In ogni caso, quando prometti che sì, sarete amici per sempre no matter what.
Che ci sarai sempre.
Che vorrete sempre bbbbene.
E sai benissimo che con la metà di loro non parlerai mai più.
Ma comunque, per non sprofondare nel cinismo più buio, ritorniamo al mio punto.
Passa questa canzone alla radio.
E via con i "ci pensi tra un mese ci salutiamo tutti.." "Oh, facciamo un Eurotrip appena finisco l'internship.." "St'estate vengo in Brasile!" (Questa l'ho detta io, madre e padre). E quando li dici ci credi.
Perchè è vero, che ci vuoi credere.
Sai benissimo che nulla sarà come te lo immagini, che una volta partiti tutti rivedersi sarà uno di quei gusti dolciamari che sanno di minestra del giorno dopo.
Sai benissimo che alla fine tutto cambia, perchè semplicemente deve cambiare.
Ma aggrapparci con le unghie a quello che ormai ci appartiene è scritto nel nostro DNA.
Qui inizia a mancare un mesetto e ormai questo "non voglio tornare a casa" inizia ad essere un ritornello buttato lì in ogni conversazione.
Che poi in realtà so che vorrei tornare.Ma con la certezza di poter ritornare qui con uno schiocco di dita.
Mi manca tutto, costantemente.
Il bidet prima di voi tutti, sappiatelo.
Ma comunque non vedo l'ora di riabbracciarvi tutti, e spupazzarvi per bene.
E' solo che quando sono partita sapevo benissimo che sarei tornata.
Nessuna certezza è crollata.
Troverò tutto come l'avevo lasciato (o quasi).
Quando lascerò questo posto so benissimo che non lo rivedrò più.
(Va bene. Dov'è lo sgabello? E il cappio? Un antidepressivo?)
Ma perchè ci sto pensando adesso?
Sto blaterando.
Saranno le troppe poche ore di sonno.
(E la quantità di zuccheri che ingurgito)



Ho prodotto di nuovo un post che non mi soddisfa, ma voi cliccate qui sopra, ascoltatevi la canzone e pensate a quando avete promesso a qualcuno che non vi sarete mai separati, perchè in quel momento ci credevate e sognavate un'amicizia infinita.
E per la miseria, me lo sono fatto anche tatuare sul polso, che io sono una sognatrice.
Troppo concentrata nel mio mondo per avere voglia di aprire gli occhi. 

Obamatown - Neverending trip



Dateci un weekend, ottanta dollari e infinite 8 ore totali di pullman e andiamo in capo al mondo.
O meglio, nella capitale degli Stati Uniti.
Sei e mezza di mattina, tre tonne imbacuccate come fossimo al polo, un taxi, una stazione dei pullman.
Un pò di nanna sconnessa fino a New York.
Due passi fino all'altra stazione dei pullman.
E poi via, pigiate negli ultimi sedili di un Megabus verso l'infinito e oltre.
Roba che io non riesco a dormire nel mio letto, figuriamoci su un sedile del bus.
Abbiamo attraversato il New Jersey, un pezzo di Pennsylvania, il Delaware e il Maryland.
Mi sono sentita molto Jack Kerouac in On The Road, peccato che al posto della macchina mi è toccato il pullman. Ma almeno avevo il wifi. I vantaggi di viaggiare nell'era di Steve Jobs.
Sfiorato lo sclero dopo un'ora in più di ritardo, mettiamo piede fuori dalla stazione.
Premetto che chi di voi è stato a Washignton mi ha detto: mah, robetta. Fa schifino.
E io con la gioia di un ornitorinco ho trascinato le mie membra in un posto che pensavo facesse schifino.
Ma la vita ha voluto sorprendermi, e o a me piacciono le cose brutte, o Washington è davvero bella.
Cioè, tenete conto che io vivo ad Albany.
Dove credo abbiano preso spunto per tutti i personaggi di Prison Break.
(Per la cronaca, tutto il personale che lavora alla dining hall è ex carcerato. Seriamente)
Quindi, immaginatemi nella capitale ricca del paese più orgoglioso di sé stesso al mondo.
Nessun grattacielo, solo grandezza.
Palazzi messi un pò lì a caso, imponenti, vicino a casette a due piani che ricordano tanto una Londra per bene.
E poi lei, la Casa Bianca.
Minuscola.
Voi vi aspettate una roba gigantesca ma la foto che vedete qui sopra è stata zoomata diecimila volte.
Ma il suo effetto lo fa stesso.






E poi uno spazio enorme, infinito, che sa di respiro e di storia.
Cosa non facile da trovare in America, soprattutto per noi abituati a Roma e ai suoi millenni di brividi storici.
Qui la cosa più vecchia che hanno è il Thanksgiving.
Comunque, dicevo, sa davvero di storia.
Camminavo lungo l'immensa fontana del Lincoln memorial e mi immaginavo Martin Luther King fare il suo discorso.
Perchè sono idiota nell'anima, ma poi mi commuovo per queste cose.
Ho in mente le foto in bianco nero di quel posto immenso, gremito di gente, con un uomo che la tiene in pugno dicendo di avere un sogno. E sbam. Mi emoziono come una bambina.
Il tempio che sembra romano, la statua enorme di Lincoln.
E poi l'obelisco.
Immenso, circondato da innumerevoli bandiere statunitensi.
Roba che nemmeno noi quando abbiamo vinto i mondiali.
Ed è subito Dan Brown e la storia dei massoni.
Certo che quando voglio faccio proprio la mia porca figura di persona colta.
Abbiamo visto il Capitol.
E il monumento a Martin Luther King.
E quello alla guerra del Vietnam.
Abbiamo chiacchierato con i veterani. Sulle loro magliette c'è scritto "Every day is a bonus".
E hanno ragione.Si impara anche così, in una ventosa mattinata turistica a Washington.
E infine il lago artificiale, e sull'altra sponda il Jefferson memorial.
Altro tempio, altro premio.
Un'altra statua.
Un altro silenzio e un'altra riflessione.
Gli americani quando si impegnano mi strappano il cuore.

Abbiamo fatto foto, mangiato in un ristorante spagnolo, scoperto le vie lussuose della capitale.
Ci hanno offerto il gelato all'Hard Rock Cafè perchè eravamo internazionali.
Abbiamo fatto colazione col Washington post e il sole caldo in faccia.
Un ottantenne di nome Luigi, americano ma di origini spagnole ci ha chiesto se abbiamo partecipato a Miss Universo.
Abbiamo mangiato cinese alle quattro del mattino.
Abbiamo riso, ballato, bevuto qualche birra, sognato insieme.
Abbiamo condiviso tutto quello che si può condividere.
Il bello di questa esperienza e di questi viaggi è che ti avvicinano alle persone, di botto.
Così, di corsa, ti costringono ad aprirti, a farti vedere, a lasciarti scoprire.
Velocemente.
Senza aver tempo di pensare.
Ti legano agli altri in un modo che non accade spesso.
Quando sei catapultata in un altro mondo, con un'altra lingua, senza nessun appoggio, sei più vulnerabile.
E trovare qualcuno che ti copra le spalle è una sensazione meravigliosa.


E poi nulla, abbiamo fatto qualche foto con le attrazioni locali.
(Possiamo fare una foto con voi? EH? Roba che manco le quattordicenni con Justin Bieber. Ma tant'è.)

Annuso, respiro, tocco, spio, ascolto e assaggio.

Avrei voluto sistemare la mia camera molto prima, stasera.
Avrei voluto fare la doccia molto prima.
Avrei voluto avere il tempo di scrivere un post epico su Washignton, stasera.
Avrei voluto scrivere un pezzo da premio Pulitzer.
E invece.
E invece sono le due di notte, sono stanca morta ma sono troppo eccitata per dormire.
Una giornata lunghissima, ma piena di dettagli che l'hanno resa intensa.
Gesti, parole, sguardi. Risate. Stupidaggini.
Soprattutto parole.
La soddisfazione di far parte di un lavoro di gruppo, esprimere le mie idee e vedere che gli altri le apprezzano. Non nella mia lingua.
Non avete idea della goduria.
Una cena che poteva essere solitaria, ma che è finita con due risate e una creazione di frutta e cioccolato.
Perchè qui incontri chiunque e sono tutti felici di vederti.
Gli occhi sorridono.
Sono curiosi, indagatori, sinceri.
Le persone hanno voglia di parlare, di condividere, di sapere.
Sono come bambini a cui mostri per la prima volta la televisione.
Ti guardano con la stessa curiosità di un bambino. Quella sincera, quella autentica.
E conoscere per loro e per me non è mai stato così bello e appagante.

Oggi la mamma di Marina ha dedicato a me lei e Sara un pezzo di canzone, in italiano.
Niente di ciò che verrà domani
Sará com'è già stato ieri
Tutto passa tutto sempre passerà
La vita, come un'onda come il mare
In un va e viene infinito
Quel che poi vedremo è
Diverso da ciò che abbiamo visto ieri
Tutto cambia, il tempo tutto nel mondo
Non serve a niente fuggire
Nè mentire a se stesso
Amore, se hai ancora un posto nel cuore
Mi ci tuffo dentro
Come fa un'onda del mare.

Volevo piangere, lo giuro.
La cosa più dolce del mondo.
La mia anima da drama queen mi porta a lacrimare ogni due per tre, chi mi conosce lo sa.
(Purtroppo per lui)

E poi niente, io e Sara abbiamo prenotato il volo per Chicago durante il Thanksgiving break.
Non riesco nemmeno a spiegare cosa si sta muovendo nel mio stomaco dall'eccitazione.
Vorrei partire domani ma allo stesso tempo voglio godermi ogni giorno qui.
Il tempo vola, tra un mese e mezzo dovrò salutare tutti e mi si spezza il cuore.
Diciamo che il Natale a NY mi distrarrà a dovere, eh.
Ma lascerò un gran pezzo di cuore in questa modesta e sconosciuta capitale americana.
Oggi stavo pensando a cosa mi mancherà.
Bene, adesso vi tocca sorbirvi la lista.
Adoro le liste.

Mi mancherà avere appesa al collo la mia SUNY card e le mie chiavi.
Mi mancherà Mary, la dolcissima vecchina che al mattino sta all'entrata della dining hall e mi dice sempre "goodmorning honey".
Mi mancherà il "I'll grab a coffee" prima delle lezioni e dello studio in biblioteca.
Mi mancherà pure la puzza di fritto che mi si appiccica addosso ogni santa volta che metto piede nella dining hall.
Mi mancherà il mio letto, la mia scrivania, la mia stanzetta striminzita, vecchiotta e oldfashioned.
Mi mancherà bussare alla porta delle ragazze quando sono annoiata.
Mi mancherà la WTs, Barleys, il Pearl Street pub, De Johns e tutti i posti dove andiamo di solito.
Mi mancherà l'odore di caffè che si sente al mattino.
Mi mancherà la tazza di carta bollente da stringere con entrambe le mani per scaldarsi.
Mi mancherà Washington park.
Mi mancherà il CVS, Price Chopper, Walmart e soprattutto quel paradiso che è il Crossgates mall.
Mi mancherà lo shuttle con i sedili imbottiti al mattino (quando sarò sulla 94 a Milano).
Mi mancherà il suono della risata di Sara e l'espressione di Marina quando sta per ridere.
Mi mancheranno le confidenze con Alice.
Mi mancherà viaggiare in giro per gli States con un borsone e la voglia vivere negli occhi, nello stomaco e nelle vene.
Mi mancherà l'odore di casa che mi è entrato nel naso e non se ne vuole andare.
Mi mancherà il mio cestino con le cose per la doccia.
Mi mancherà dire "Bitch please" ogni tre parole.
Mi mancherà ascoltare "Chicken Fried" il giovedì sera alla WTs.
Mi mancherà il suono di come la gente pronuncia "Hey wassup".
Mi mancherà capire ormai (quasi) tutto di cosa dicono i professori a lezione e le mie serie preferite.
Mi mancherà pure dire "What?" almeno tre o quattro volte quando parlo con i miei amici inglesi e irlandesi, e secondo come fare finta di aver capito alla quarta volta e ridacchiare nervosamente.
Mi mancheranno i quattro isolati a piedi fino al supermercato, ogni volta percorsi col naso all'insù a guardare le case o le foglie degli alberi.
Mi mancheranno le cene in pigiama, che sanno di amici, di calore, di parole e di angoli della bocca piegati all'insù.
Mi mancherà la sensazione di essere straniera ma un pò adottata.
Mi mancherà il senso di appartenenza a questa università il giallo e il viola, leggere USA Today al mattino come se fosse Repubblica.
Mi mancheranno i cereali con lo yogurt.
I waffles.
I quarantamila tipi di cookies e pringles.
Mi mancheranno un pò meno i vicini che corrono i skateboard alle quattro di notte per il corridoio.
Mi mancherà un pò meno il bagno in comune, in effetti.

Mi mancherà soprattutto la sensazione di essere parte di qualcosa, di qualcuno. Si essere entrata nella pelle delle persone che ho conosciuto nello stesso modo in cui loro sono entrate nella mia.
Mi mancherà tutto quello che vedo, ascolto, respiro, gusto e tocco ogni giorno.
Mi mancherà tutto quello che ho stampato in mente, negli occhi, nel naso.
Mi mancherà ogni minuto vissuto dall'altra parte del mondo.
Mi mancherà la sensazione di essere così viva, potente, vibrante.

Mi mancherà il mio angolo di America.

Quella volta che ho aspettato (invano) un uragano.

Comprare una cassa da 24 bottigliette d'acqua (e trascinarsele fino a casa a piedi con un'amica) e scorte di cibo di prima necessità (quali patatine, noodles da scaldare in microonde, oreo, cookies, crackers e banane) in previsione di un uragano: check.
Esperienza che in effetti non potevo perdermi.
Guarda te che culo.
Io e Marina (brasiliana, ndr), non avendo mai visto un uragano nella nostra vita, siamo andate a fare scorta di beni primari. Ci mancava solo la botola che portava al seminterrato e poi eravamo a posto.
Eccitate da una parte e spaventate nell'osso dall'altra.
Si sa che gli americani tendono a essere un pochino allarmisti, ma stavolta c'avevano anche un pochetto di ragione.
Cioè, ovviamente non qui.
Cartelli ovunque con istruzioni come: tieni a portata di mano un cuscino e una coperta, se parte la corrente evacua. Evacuo cosa? Dove vado sotto la pioggia al buio? Non ci era dato saperlo.
Altro consiglio: se esplode la finestra evacua. Cioè nel senso che può esplodere sul serio?
Togli la roba di valore dal pavimento. E sia.
Fatto sta che ieri pomeriggio eravamo in pieno mood pre-uragano: chiuse in una camera con degli oreo a guardare delle serie per poi addormentarci tutte insieme stile tetris. Una scorpacciata di cibo e poi altri oreo e patatine accompagnati da manicure e pedicure.
Quello che ci è arrivato di Sandy è stato uno sputacchio, alla fine.
Un bel pò di pioggia e vento, ma roba che a Savona quando c'è la mareggiata mi spavento di più.
Oggi sì, sono andata a Zumba e c'era un vento che mi portava via.
Anzi no, con il mio peso specifico non mi avrebbe mai portata via, ma avete capito.
Ma perchè non riesco a produrre un post che mi soddisfi e finisco per parlare della mia ciccia in esubero?

Comunque.
Qui di seguito vi allego le prove che il tempo non era bellerrimo.
In ordine, ieri e oggi.



E niente, come ogni tragedia che si rispetti vi ringrazio per avermi chiesto come stavo e se sarei sopravvissuta all'uragano, vi amo tutti. Grazie madre e padre che vi preoccupate per me e prima o poi un ictus vi porterà via perchè finirete nel panico e chiamerete Obama in persona.
Io poi ovviamente sono cretina e faccio la scema, ma ho seguito (per ovvie ragioni) quarantamila telegiornali, tutti i siti live della CNN e della ABC con le news e devo ammettere che le foto e i video di New York allagata e mezza al buio mi hanno sconvolta. Sarà perchè qualcosa come un mesetto fa ero lì, in quelle strade, a fare foto e a sentirmi al centro del mondo.
Ora, sappiamo che Sandy ha colpito almeno sei o sette stati, inondato completamente Atlantic City, devastato il New Jersey, ma New York ci fa più impressione.
Perchè lei è sempre stata lì, imponente, potente, elegante.
Luminosa, il faro della East Coast ma anche di tutti gli States, la città che ha saputo riprendersi dall 9/11 e ha ricostruito una torre ancora più alta, dal rinomato orgoglio americano.
Lei è sempre stata il centro del mondo.
La città che tutti sognano.
Perchè tutti in fondo la sognano.
La città che tutti vogliono vivere come nei film. Perchè lei stessa è attrice protagonista.
Lei detta le mode, i tempi, gli spazi.
Grande e grossa.
Messa in ginocchio da qualcosa che non avrebbe mai potuto combattere.
Ma solo subire, o tentare di prevenire.
Con la testa bassa, ora si lecca le ferite.
Diamine, le immagini della CNN sembravano quelle dell'inizio di The Day After Tomorrow.
Nonostante i mille allarmi almeno una ventina di persone sono morte, a Manhattan e in tutti gli stati colpiti.
L'America ancora una volta conta le sue vittime, e New York spicca tra tutte le città piegate da Sandy.





Quei due mesi da qualche parte del nord degli U.S.

Due mesi sono passati.
Più di sessanta giorni.



Sessanta.
Vi dirò, ormai ho preso un tran tran dormitorio-bus-college-mall-walmart-WTs (Washington Tavern, il ritrovo delle nostre sbronze finesettimanali)- dormitorio.
Non vado quasi mai a downtown, forse perchè per una volta che mi sono inoltrata qualche isolato (isolato..inizio proprio ad americanizzarmi) per andare in farmacia ho temuto davvero per la mia esistenza. Quartoggiaro è Via Montenapoleone in confronto, ve lo giuro.
I dettagli come al solito in privato.

Anyway.
Dicevo.
Ogni tanto mi scordo quasi di essere in America, tutto inizia ad avere quella forma e quei colori che associ a qualcosa di familiare, conosciuto, sicuro.
La fermata dell'autobus sotto "casa", la library, il pub a un isolato, il "pizza place" dove andiamo ogni volta a sbranare una fetta di margherita a due dollari alle quattro di notte.
La dining hall.
I bagni.
Persino i bagni.
Vi dirò, l'altro giorno ero in università e insomma sì, ci dovevo andare.
E volevo farla a casa.
Contando che il bagno in università è identico a quello di casa, dato che lo condividiamo, il pensiero ha di per sè poco senso.
Ma quel bagnetto insulso ormai è un pò casa.
Si, ridete pure.
Sto pensando di cancellare le ultime sei o sette righe ma se le ho scritte evidentemente sento il bisogno di condividerle con voi.
Pensieri profondi di un martedì sera qualunque.


Ah. Vi presento Furbo, il dito che mi è rimasto spiaccicato sotto una finestra venerdi.
Belle sfumature.
Si intonano con Halloween, questo verdino-violaceo tendente al colore di qualcosa che sta marcendo.
Perchè se una è furba, lo è fino in fondo.
Comunque, altro giro altra corsa all'health center.
Vi giuro che le infermiere mi riconoscono.
Una mi ha detto: mi ricordo anche che sei italiana. Sei sempre qui.
Son cose che fan piacere.
Ma del resto, un'ipocondriaca le cose se le tira anche un pò addosso, come mi dice sempre saggiamente il Danno.
Sarà il karma che fa il suo dovere.
Sarà che sono solo rincoglionita?




Ma passiamo a cose più interessanti.
Non riesco a smettere di fare foto a caso agli alberi e all'università.
Ma davvero, sono stupendi.





Qui sopra invece vi delizio con scorci della DINER dove abbiamo cenato giovedì sera per il compleanno di una di noi. Perchè siamo un pò camioniste inside. E perchè un mega hamburger più torta di compleanno a otto dollari in un posto che più americano non si può non potevamo perderceli.
Per la cronaca, sì, quello è il mio hamburger,
E sì, quelle sono cipolle.
Ve l'avevo detto che dentro di me, oltre alla cheerleader che mi sono mangiata, esiste anche un camionista con il tatuaggio a cuore e la scritta mamma sul braccio destro.

Nulla, non riesco a produrre niente di poetico stasera.
Posso però aggiornare la mia lista di scoperte americane.
A che numero ero arrivata?
Ah sì.
31. Ogni stagione è adatta per le ciabatte con i calzini e i calzoni corti. Anche quando io indosso sciarpa di lana e maglione.
32. Nessuno qui conosce la Moka.
33. Nessuno è mai stato in Europa. Un sondaggio da me condotto dimostra che tutti vorrebbero andarci ma è COSI' lontana. Tipo un altro universo. Della serie "Bella eh, ma lasciami guardare il football la domenica che del Colosseo e dell'Arco di Trionfo poco mi frega.
34. Cenare con un bicchiere di latte non è da pazzoidi.
35. Gli americani si urtano se gli scappa la cacca dopo la doccia. Per un attimo mi è sfuggito il perchè. Poi ho capito che LORO non hanno il bidet.
36. Qui se sei straniero ti fermano per parlare in autobus anche solo per sapere di dove sei e se ti piace l'America. Immaginate di chiedere a uno a caso un lunedì mattina di dov'è sulla metro verde a Cadorna. Come minimo se ne va indignato, come massimo vi spara un "ma fatti i cazzi tuoi".
37. I camerieri non si scazzano se gli chiedi di farti una foto al compleanno, te ne fanno due così puoi scegliere quella che è venuta meglio.
38. Pasta e pezzi di pollo qui è la massima ambizione. Mai vista in Italia in vita mia.
39. Qui nessuno fuma. Sigarette. Forse perchè costano 10 dollari a pacchetto.
40. Se non ascolti Drake o Lil Wayne fai cagare.

Niente, stasera partorire qualcosa che valga la pena di essere ricordato non è nelle mie corde.
Accontentatevi. 

E ascoltatevi questa canzone che sa di America come nessun'altra.
Zac Brown Band - Chicken Fried

"A little bit of chicken fried
a cold beer on a Friday night, 

a pair of jeans that fits just right,
and the radio oooooon"......

La città che non dorme mai - Un anno dopo

Ebbene sì. Una domenica qualunque.
Due ore di pullman. 30 dollari andata e ritorno.
Una levataccia.
Ma eccoci di nuovo faccia a faccia, New York.



Praticamente un anno dopo.
Sono senza parole.
Anche perchè per New York ce ne sono sempre state troppe.
Credo sia la città più raccontata al mondo.
Ha senso che io vi descriva un'altra volta le luci accecanti di Times Square?
I brividi inquietanti mentre alzo la testa per scrutare la cima della nuova torre al posto del World Trade Center?
I brividi di eccitazione quando dal pullman ho visto ancora una volta quella manciata di grattacieli da lontano, un puntino azzurro che è Lady Liberty e la punta dell'Empire?
La sensazione di essere proprio lì, al centro del mondo, camminando per la Broadway?


Vi dirò, piano piano inizio a conoscerla, a comprenderla.
All'inizio è un gioiellino luccicante, uno di quei regali di Natale che da piccolo desideravi fortissismo e finalmente lo trovi sotto l'albero, in un pacco sfavillante.
All'inizio è spavalda, orgogliosa, nel suo vestito migliore.
Le piace mostrarsi.
Poi piano piano si lascia svestire, e riesco a comprenderne gli angoli.
Non sono la Broadway, Times Square, la Fifth Avenue.
Lei non è solo questo.
Ogni volta che vedo Times Square rimango a bocca aperta, certo. Ma ormai la conosco. Conosco le vetrine, i cartelloni, i taxi, gli odori.
Preferisco girare l'angolo, perdermi nelle viette di Soho.
Quelle piene di lavori in corso, tombini dai quali esce fumo denso e bianco in continuazione.
Quelle che puzzano di vino e di vita vissuta.
Quelle che mostrano la New York imperfetta.
Un pò in hangover.
Un pò come dopo una serata importante.
La New York struccata, con i capelli spettinati e gli occhi impiastricciati dal sonno.
La New York che le guide turistiche non ti mostrano quasi mai.
Le casupole strabiche appena dietro ai grandi grattacieli.
Le scale antincendio dei palazzi più vecchi.
I baracchini che vendono hot dog.
I barboni, probabilmente più numerosi che i taxi gialli.
La stazione dei pullman. Che in confronto Quartoggiaro è Versailles.
La fame. La povertà. La spazzatura di fronte ai ristoranti.
Tutto quello che non è abbastanza bello da essere esposto in vetrina nelle agenzie di viaggio.

La città che vive e pulsa sotto il vestito da sera.
La città che in fondo è umana come ogni città del mondo.
Che ha i suoi difetti e le sue contraddizioni.
Che passa dall'eleganza dell'Upper East Side e la sua parte di Fifth Avenue alla frenetica Midtown, con Times Square, gli uffici, fino ad arrivare a Wall Street, passando dalla viette di Soho, ai colori e alla modestia di Chinatown e Little Italy.
La città che ne ha per tutti.
Che vale la pena di essere respirata non solo nei neon di Broadway.
Ma anche nella puzza di vino e di marciapiede in una domenica piovosa di ottobre.