giovedì 29 novembre 2012

Datemi un Tacchino. Ovvero il mio primo Thanksgiving.



Mi sto maledicendo mentalmente perchè sono passate due settimane dall'ultima volta che ho prodotto qualcosa di leggibile, e avrei voluto scrivere molto di più. Soprattutto perchè tra meno di un mese porto via baracca e burattini e ritornerò a scrivere di...di che? Della metro di Milano e della mia Hyundai Atos del 99.
Quindi vi sto per rifilare un post epico.
Non tanto per quello che scrivo, ma per quello che ho vissuto.
Come sapete qui in Obamalandia festeggiano il Thanksgiving.
E a tutti viene in mente un mega tacchino e cibo a volontà.
E fondamentalmente è quello.
Ma la magia di questa tradizione mi ha travolta come la mattina di Natale quando avevo dieci anni.
Ma partiamo dall'inizio.
Come al solito mi sono portata dietro la mia famiglia adottiva, ovvero Sara e Marina.
Lunedì notte abbiamo dormito tre ore, alle sei eravamo di fronte all'entrata dell'Alumni ad aspettare il taxi.
Freddo, sonno, occhi gonfi, un borsone a testa e ancora la bocca impastata dal sonno. Forse il segno del cuscino sulla guancia. Ma l'aria che ho respirato in quel momento, l'aria di partenza, di viaggio, di novità, di scoperta, di avventura, di nuovi volti, voci e risate, di abbracci e voglia di vivere, non la dimenticherò mai.
Fatto sta che mi sentivo parecchio poetica anche in quel momento, su quel sedile del solito pullman che ci stava portando a New York alle sette di mattina. Quindi ho avuto la forza di sbloccare il mio iPhone (vedete a cosa serve, voi che non capite chi è slavo della tecnologia?) e scrivere una nota chilometrica sul viaggio, le amicizie, il senso della vita e tutti i luoghi comuni che vi vengono in mente.
Ma è davvero una dolcezza.
Quindi la posterò.

20 novembre. 7:58
Nemmeno le otto di mattina. Tre ore di sonno. Musica nelle orecchie e sole che sorge. E tutto quello che mi viene in mente è che sono fatta esattamente per questo. Per spogliarmi di tutto. Mettere due vestiti a caso 
(falso, falsissimo: ci ho pensato per due giorni a lezione, a cosa portare.) in un borsone e muovermi. Partire. Viaggiare. Vedere. Questo paese mi strega, mi chiama e non posso non rispondere. Sto guardando il cielo, ora. E' enorme (Va bene, forse era meglio rileggerlo prima di salvarlo sul cellulare. La banalità fatta a nota). Tutto qui sembra più grande. Sconfinato, non prova mai a soffocarti. Abbraccia. Accoglie. Gli alberi, le strade, le foglie, i colori. I colori sono più grandi, più forti, più penetranti. Ti entrano dentro e non puoi farci nulla. I colori del cielo sono forti, vivi, inebrianti. Tutto fa venire voglia di muoversi, correre, volare, scoprire, scoprirsi. Sono su un sedile di un pullman in mezzo al nulla tra Albany e New York, con due persone che non conoscevo fino a tre mesi fa e ora non riesco a immaginare il momento in cui dovrò separarmi da loro. Mi sento come se non avessi fatto altro nella vita. Da sempre. Non mi sono mai sentita così viva. Così piena di vita, di voglia di fare, i miei occhi non ne hanno mai abbastanza. Mi riscopro con gli angoli della bocca piegati all'insù. Senza accorgermene. Mi lascio andare. Non ancora del tutto. Spesso tendo ancora a controllare, a trovare dei punti fermi, a volere una sicurezza. Ho sempre avuto bisogno di avere tutto sotto controllo. Ma qui è una sfida continua, e io vinco spesso. Ma anche perdere non è male.

Insomma, una perla di poesia, neh?
Cosa volete, dopo tre ore di sonno e un panino al formaggio e salame alle sette del mattino?
Abbiamo volato da NYC a Chicago. Due ore e mezza e tre o quattro stati dopo siamo atterrate nella Città del Vento. Chicago è stupenda. Sono senza parole. Se uno sogna New York guardando Gossip Girl, non ha idea di cosa si perde non sognando Chicago.
Chicago è una distesa di casette e casupole che diventano un gruppo di grattacieli affacciati sul lago. Che potrebbe benissimo essere il Mediterraneo.
New York è e sempre sarà New York.
La città di cui mi stampavo le foto dal mio pc windows 95 e me le appendevo al muro.
Sarà sempre la città in cui ho visto camminare Carrie Bradshaw con le sue Manolo da capogiro.
Ma Chicago ha un fascino che porta via il fiato.
Downtown è decisamente più piccola di Manhattan, più concentrata.
Ma ha ampie strade, negozi ad ogni angolo, palazzi moderni ma anche dal sapore europeo.
Non ti dà quella sensazione di fretta, di vite che corrono frenetiche, di persone che si scontrano uscendo dalla metro o che litigano per un taxi.
Non si sente quell'odore persistente e acido di vino che ti entra nelle narici e non se ne va più.
Chicago è una metropoli che ti mette a tuo agio. Non ti spinge, non ti mette fretta nella rush hour.
A due passi dal Loop metti piedi in Millennium park.
Rimani affascinata dal Bean che riflette tutto il mondo alle tue spalle.
Fai due passi a bordo lago. Ti perdi tra il cielo, il vento, il verde del parco e l'argento scintillante dei grattacieli. Provate a immaginare grattacieli di cui non vedi la fine e un molo enorme che si perde in un lago grande quanto il nostro mare. E' qualcosa di incomprensibile per noi.








Dopo un giorno e mezzo a Chicago abbiamo di nuovo impacchettato tutto e via, dei noodles in una scatola e pronte sul treno per Milwaukee.
Altro giro, altro stato.
Siamo state prelevate direttamente alla stazione da Matt, e via in direzione Grafton, a una ventina di minuti da Milwaukee.
Non appena abbiamo messo piede nella sua casa persa in mezzo agli alberi spogli, non appena abbiamo abbracciato i suoi genitori che ci hanno accolto a braccia aperte, abbiamo sentito aria di famiglia.
Una casetta curata in ogni dettaglio, una casa che sa di famiglia, di cose vere.
L'ospitalità di queste persone non la dimenticherò mai.
Credo che il vero padrone di casa riesca a fare in modo che il proprio ospite si senta davvero a casa, e non solo un ospite che ha paura di toccare qualsiasi cosa per paura di rovinarla.
E si, loro sono stati padroni di casa perfetti.
Dopo pochi minuti ci sentivamo già a casa.
Ci hanno accolte senza problemi, per uno dei giorni più importanti e intimi dell'anno.
Abbiamo aiutato Linda (la mamma) a preparare l'apple crumble, abbiamo chiacchierato e raccontato le nostre vite come se ci conoscessimo da sempre.
Abbiamo abbracciato ogni parente, abbiamo sorriso ad ogni complimento, abbiamo riso ad ogni battuta.
Abbiamo visto il tacchino fumante uscire dal forno.
Abbiamo pregato insieme a loro. Abbiamo ringraziato per il cibo.
Mi ci vedete, voi, a dire la preghiera prima di mangiare?
Eppure lì, in quel momento, mi è sembrata l'unica cosa sensata da fare.
Immergersi dentro culture diverse dalla tua ti fa capire che non sempre hai ragione.
E soprattutto che non sempre esiste un giusto o sbagliato, ma che la vita è molto più flessibile e malleabile, che i confini non sono così netti e che muoversi tra una barriera e l'altra è spettacolare.
Non ho mai dormito meglio in quel letto preparato con amore, che sapeva di lenzuola lavate di fresco e coperte di una nonna che le ha conservate con cura.
Non ho mai apprezzato così tanto un caffè solubile al bancone di una cucina.
Non mi sono mai sentita così serena a più di settemila chilometri da casa.
Due giorni di dolce far niente, di cibo, di football, di maratone di film e di tenerezza in famiglia.
Sarà che mi è venuta in mente la mia, di famiglia, sarà che mi hanno dato l'impressione di essere davvero uniti, sarà che sono lontana da casa, ma non mi sono mai sentita così tanto a casa in questi tre mesi come in quella cittadina nel mezzo del Wisconsin.


Dopo due giorni siamo ripartite.
Tante cose in più nel cuore, un velo di tristezza nel cuore negli abbracci.
Chissà se ci rivedremo ancora.
Nel viaggio di ritorno a Chicago non sono riuscita a dormire.
Ho scritto una nuova nota.

23 novembre. 10:26
Altro mezzo di trasporto, altro Stato, altra alba. Sono sul treno che torna a Chicago dopo due giorni di America pura a Grafton. Immersa nel nulla, fattorie con granai stile Clark Kent, casette da set di Desperate Housewives. Ho amato il MidWest, con il suo accento morbido e comprensibile, molto meno ritmato di quello di New York. E' quando inizi a distinguere gli accenti che ti senti davvero potente, fuck yeah. Scusate. Dicevo. Ho amato il MidWest per il suo adattarsi perfettamente al mio concetto di America. L'America che va oltre la metropoli, quella che si nasconde in casette di legno, in dettagli, in ghirlande di foglie secche, in bandiere con tacchini, in lucine di Natale attorcigliate intorno ai corrimano dei portici delle case. Ho amato il MidWest per la sua aria di fresco, di aperto. Per i sorrisi della gente che ho incontrato e mi ha ospitato. Per la gentilezza e la cura con cui sono stata trattata, una sconosciuta a casa loro. Ho passato un giorno del ringraziamento da sogno. Ho sorriso emozionata ad ogni passo della cottura dei piatti. Ho abbracciato parenti che non vedrò probabilmente mai più. Ho guardato dentro occhi che forse non incrocerò più ma le sensazioni che mi hanno dato non le dimenticherò mai. Mi sento anche io di ringraziare. In questo momento sono così ubriaca di cibo, affetto, sorrisi, abbracci, e sonno che snocciolerei una lista infinita.
Che parte dai miei genitori. Che mi hanno dato la possibilità di essere dove sono. Che nonostante le mille paure hanno stretto i denti e mi hanno lasciata andare. Va avanti con tutte le persone che mi sono accanto da casa, vicine ma lontane. Con chi mi ha sempre supportata, anche con i miei deliri. Un grazie gigantesco alle due persone che mi hanno coccolata come se fossimo amiche da sempre, Sara e Marina. Con loro le parole spesso non servono, sappiamo benissimo quando tacere.
Ringrazio chiunque sia capitato sulla mia strada in questi tre mesi, perchè ha contribuito a spogliarmi di tante mie paure e a rendere il mio sorriso meno insicuro.
Ringrazio di avere la possibilità di farmi entrare tutto nella pelle, di vivere quello che ho sempre immaginato dall'interno. Di capirlo. Di rigirarmelo tra le mani come un giocattolo e scrutarlo con la curiosità di un bambino. 
Ringrazio me, perchè non ho più paura di superare i miei limiti. Perchè la sensazione di guardarsi intorno non ha paragoni.

Siamo ritornate a Chicago. E questo è quello che abbiamo trovato.




Per finire, ho trovato un'ultima nota.
Stavo guardando l'alba dall'oblò. Sul mio volo delle 5.45.
Stavo tornando a quella che per questi tre mesi è stata casa.

24 novembre. 6:38Sei e trentotto. Guardo a destra e vedo nuvole pannose, stringo gli occhi verso il sole che ha appena fatto capolino dalla distesa bianca e increspata. Ho dormito tre ore.
Posso vedere i miei occhietti stanchi riflessi nello schermo del telefono.
Una figa, insomma.
Il nostro Thanksgiving break è quasi finito e torniamo a casa cariche di nuove cose.
Abbiamo messi piede nella Willis Tower. 103 piani. Immaginatemi nello sclero dell'altezza. Ma mi ha tolto il fiato. Il mondo visto dall'alto ha tutto un altro gusto. Un pò come guardarlo da questo oblò. Paradossalmente è uno dei pochi posti dove mi sento al sicuro. Quassù, nel silenzio. Mentre le altre dormono e io mi perdo nelle tonnellate di stupidaggini che ho nella testa e nei colori di una mattina di novembre oltreoceano.

Questo è tutto quello che sono riuscita a produrre sull'aereo.
Che è tanto con sole tre ore di sonno alle spalle.
Ma la cosa stupenda è che ripartirei domani mattina, senza una meta, senza un albergo, senza nulla.
Solo con la voglia di fare che mi accompagna sempre e le mie due compari.




E l'iPhone. Ovviamente.

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Datemi un Tacchino. Ovvero il mio primo Thanksgiving.



Mi sto maledicendo mentalmente perchè sono passate due settimane dall'ultima volta che ho prodotto qualcosa di leggibile, e avrei voluto scrivere molto di più. Soprattutto perchè tra meno di un mese porto via baracca e burattini e ritornerò a scrivere di...di che? Della metro di Milano e della mia Hyundai Atos del 99.
Quindi vi sto per rifilare un post epico.
Non tanto per quello che scrivo, ma per quello che ho vissuto.
Come sapete qui in Obamalandia festeggiano il Thanksgiving.
E a tutti viene in mente un mega tacchino e cibo a volontà.
E fondamentalmente è quello.
Ma la magia di questa tradizione mi ha travolta come la mattina di Natale quando avevo dieci anni.
Ma partiamo dall'inizio.
Come al solito mi sono portata dietro la mia famiglia adottiva, ovvero Sara e Marina.
Lunedì notte abbiamo dormito tre ore, alle sei eravamo di fronte all'entrata dell'Alumni ad aspettare il taxi.
Freddo, sonno, occhi gonfi, un borsone a testa e ancora la bocca impastata dal sonno. Forse il segno del cuscino sulla guancia. Ma l'aria che ho respirato in quel momento, l'aria di partenza, di viaggio, di novità, di scoperta, di avventura, di nuovi volti, voci e risate, di abbracci e voglia di vivere, non la dimenticherò mai.
Fatto sta che mi sentivo parecchio poetica anche in quel momento, su quel sedile del solito pullman che ci stava portando a New York alle sette di mattina. Quindi ho avuto la forza di sbloccare il mio iPhone (vedete a cosa serve, voi che non capite chi è slavo della tecnologia?) e scrivere una nota chilometrica sul viaggio, le amicizie, il senso della vita e tutti i luoghi comuni che vi vengono in mente.
Ma è davvero una dolcezza.
Quindi la posterò.

20 novembre. 7:58
Nemmeno le otto di mattina. Tre ore di sonno. Musica nelle orecchie e sole che sorge. E tutto quello che mi viene in mente è che sono fatta esattamente per questo. Per spogliarmi di tutto. Mettere due vestiti a caso 
(falso, falsissimo: ci ho pensato per due giorni a lezione, a cosa portare.) in un borsone e muovermi. Partire. Viaggiare. Vedere. Questo paese mi strega, mi chiama e non posso non rispondere. Sto guardando il cielo, ora. E' enorme (Va bene, forse era meglio rileggerlo prima di salvarlo sul cellulare. La banalità fatta a nota). Tutto qui sembra più grande. Sconfinato, non prova mai a soffocarti. Abbraccia. Accoglie. Gli alberi, le strade, le foglie, i colori. I colori sono più grandi, più forti, più penetranti. Ti entrano dentro e non puoi farci nulla. I colori del cielo sono forti, vivi, inebrianti. Tutto fa venire voglia di muoversi, correre, volare, scoprire, scoprirsi. Sono su un sedile di un pullman in mezzo al nulla tra Albany e New York, con due persone che non conoscevo fino a tre mesi fa e ora non riesco a immaginare il momento in cui dovrò separarmi da loro. Mi sento come se non avessi fatto altro nella vita. Da sempre. Non mi sono mai sentita così viva. Così piena di vita, di voglia di fare, i miei occhi non ne hanno mai abbastanza. Mi riscopro con gli angoli della bocca piegati all'insù. Senza accorgermene. Mi lascio andare. Non ancora del tutto. Spesso tendo ancora a controllare, a trovare dei punti fermi, a volere una sicurezza. Ho sempre avuto bisogno di avere tutto sotto controllo. Ma qui è una sfida continua, e io vinco spesso. Ma anche perdere non è male.

Insomma, una perla di poesia, neh?
Cosa volete, dopo tre ore di sonno e un panino al formaggio e salame alle sette del mattino?
Abbiamo volato da NYC a Chicago. Due ore e mezza e tre o quattro stati dopo siamo atterrate nella Città del Vento. Chicago è stupenda. Sono senza parole. Se uno sogna New York guardando Gossip Girl, non ha idea di cosa si perde non sognando Chicago.
Chicago è una distesa di casette e casupole che diventano un gruppo di grattacieli affacciati sul lago. Che potrebbe benissimo essere il Mediterraneo.
New York è e sempre sarà New York.
La città di cui mi stampavo le foto dal mio pc windows 95 e me le appendevo al muro.
Sarà sempre la città in cui ho visto camminare Carrie Bradshaw con le sue Manolo da capogiro.
Ma Chicago ha un fascino che porta via il fiato.
Downtown è decisamente più piccola di Manhattan, più concentrata.
Ma ha ampie strade, negozi ad ogni angolo, palazzi moderni ma anche dal sapore europeo.
Non ti dà quella sensazione di fretta, di vite che corrono frenetiche, di persone che si scontrano uscendo dalla metro o che litigano per un taxi.
Non si sente quell'odore persistente e acido di vino che ti entra nelle narici e non se ne va più.
Chicago è una metropoli che ti mette a tuo agio. Non ti spinge, non ti mette fretta nella rush hour.
A due passi dal Loop metti piedi in Millennium park.
Rimani affascinata dal Bean che riflette tutto il mondo alle tue spalle.
Fai due passi a bordo lago. Ti perdi tra il cielo, il vento, il verde del parco e l'argento scintillante dei grattacieli. Provate a immaginare grattacieli di cui non vedi la fine e un molo enorme che si perde in un lago grande quanto il nostro mare. E' qualcosa di incomprensibile per noi.








Dopo un giorno e mezzo a Chicago abbiamo di nuovo impacchettato tutto e via, dei noodles in una scatola e pronte sul treno per Milwaukee.
Altro giro, altro stato.
Siamo state prelevate direttamente alla stazione da Matt, e via in direzione Grafton, a una ventina di minuti da Milwaukee.
Non appena abbiamo messo piede nella sua casa persa in mezzo agli alberi spogli, non appena abbiamo abbracciato i suoi genitori che ci hanno accolto a braccia aperte, abbiamo sentito aria di famiglia.
Una casetta curata in ogni dettaglio, una casa che sa di famiglia, di cose vere.
L'ospitalità di queste persone non la dimenticherò mai.
Credo che il vero padrone di casa riesca a fare in modo che il proprio ospite si senta davvero a casa, e non solo un ospite che ha paura di toccare qualsiasi cosa per paura di rovinarla.
E si, loro sono stati padroni di casa perfetti.
Dopo pochi minuti ci sentivamo già a casa.
Ci hanno accolte senza problemi, per uno dei giorni più importanti e intimi dell'anno.
Abbiamo aiutato Linda (la mamma) a preparare l'apple crumble, abbiamo chiacchierato e raccontato le nostre vite come se ci conoscessimo da sempre.
Abbiamo abbracciato ogni parente, abbiamo sorriso ad ogni complimento, abbiamo riso ad ogni battuta.
Abbiamo visto il tacchino fumante uscire dal forno.
Abbiamo pregato insieme a loro. Abbiamo ringraziato per il cibo.
Mi ci vedete, voi, a dire la preghiera prima di mangiare?
Eppure lì, in quel momento, mi è sembrata l'unica cosa sensata da fare.
Immergersi dentro culture diverse dalla tua ti fa capire che non sempre hai ragione.
E soprattutto che non sempre esiste un giusto o sbagliato, ma che la vita è molto più flessibile e malleabile, che i confini non sono così netti e che muoversi tra una barriera e l'altra è spettacolare.
Non ho mai dormito meglio in quel letto preparato con amore, che sapeva di lenzuola lavate di fresco e coperte di una nonna che le ha conservate con cura.
Non ho mai apprezzato così tanto un caffè solubile al bancone di una cucina.
Non mi sono mai sentita così serena a più di settemila chilometri da casa.
Due giorni di dolce far niente, di cibo, di football, di maratone di film e di tenerezza in famiglia.
Sarà che mi è venuta in mente la mia, di famiglia, sarà che mi hanno dato l'impressione di essere davvero uniti, sarà che sono lontana da casa, ma non mi sono mai sentita così tanto a casa in questi tre mesi come in quella cittadina nel mezzo del Wisconsin.


Dopo due giorni siamo ripartite.
Tante cose in più nel cuore, un velo di tristezza nel cuore negli abbracci.
Chissà se ci rivedremo ancora.
Nel viaggio di ritorno a Chicago non sono riuscita a dormire.
Ho scritto una nuova nota.

23 novembre. 10:26
Altro mezzo di trasporto, altro Stato, altra alba. Sono sul treno che torna a Chicago dopo due giorni di America pura a Grafton. Immersa nel nulla, fattorie con granai stile Clark Kent, casette da set di Desperate Housewives. Ho amato il MidWest, con il suo accento morbido e comprensibile, molto meno ritmato di quello di New York. E' quando inizi a distinguere gli accenti che ti senti davvero potente, fuck yeah. Scusate. Dicevo. Ho amato il MidWest per il suo adattarsi perfettamente al mio concetto di America. L'America che va oltre la metropoli, quella che si nasconde in casette di legno, in dettagli, in ghirlande di foglie secche, in bandiere con tacchini, in lucine di Natale attorcigliate intorno ai corrimano dei portici delle case. Ho amato il MidWest per la sua aria di fresco, di aperto. Per i sorrisi della gente che ho incontrato e mi ha ospitato. Per la gentilezza e la cura con cui sono stata trattata, una sconosciuta a casa loro. Ho passato un giorno del ringraziamento da sogno. Ho sorriso emozionata ad ogni passo della cottura dei piatti. Ho abbracciato parenti che non vedrò probabilmente mai più. Ho guardato dentro occhi che forse non incrocerò più ma le sensazioni che mi hanno dato non le dimenticherò mai. Mi sento anche io di ringraziare. In questo momento sono così ubriaca di cibo, affetto, sorrisi, abbracci, e sonno che snocciolerei una lista infinita.
Che parte dai miei genitori. Che mi hanno dato la possibilità di essere dove sono. Che nonostante le mille paure hanno stretto i denti e mi hanno lasciata andare. Va avanti con tutte le persone che mi sono accanto da casa, vicine ma lontane. Con chi mi ha sempre supportata, anche con i miei deliri. Un grazie gigantesco alle due persone che mi hanno coccolata come se fossimo amiche da sempre, Sara e Marina. Con loro le parole spesso non servono, sappiamo benissimo quando tacere.
Ringrazio chiunque sia capitato sulla mia strada in questi tre mesi, perchè ha contribuito a spogliarmi di tante mie paure e a rendere il mio sorriso meno insicuro.
Ringrazio di avere la possibilità di farmi entrare tutto nella pelle, di vivere quello che ho sempre immaginato dall'interno. Di capirlo. Di rigirarmelo tra le mani come un giocattolo e scrutarlo con la curiosità di un bambino. 
Ringrazio me, perchè non ho più paura di superare i miei limiti. Perchè la sensazione di guardarsi intorno non ha paragoni.

Siamo ritornate a Chicago. E questo è quello che abbiamo trovato.




Per finire, ho trovato un'ultima nota.
Stavo guardando l'alba dall'oblò. Sul mio volo delle 5.45.
Stavo tornando a quella che per questi tre mesi è stata casa.

24 novembre. 6:38Sei e trentotto. Guardo a destra e vedo nuvole pannose, stringo gli occhi verso il sole che ha appena fatto capolino dalla distesa bianca e increspata. Ho dormito tre ore.
Posso vedere i miei occhietti stanchi riflessi nello schermo del telefono.
Una figa, insomma.
Il nostro Thanksgiving break è quasi finito e torniamo a casa cariche di nuove cose.
Abbiamo messi piede nella Willis Tower. 103 piani. Immaginatemi nello sclero dell'altezza. Ma mi ha tolto il fiato. Il mondo visto dall'alto ha tutto un altro gusto. Un pò come guardarlo da questo oblò. Paradossalmente è uno dei pochi posti dove mi sento al sicuro. Quassù, nel silenzio. Mentre le altre dormono e io mi perdo nelle tonnellate di stupidaggini che ho nella testa e nei colori di una mattina di novembre oltreoceano.

Questo è tutto quello che sono riuscita a produrre sull'aereo.
Che è tanto con sole tre ore di sonno alle spalle.
Ma la cosa stupenda è che ripartirei domani mattina, senza una meta, senza un albergo, senza nulla.
Solo con la voglia di fare che mi accompagna sempre e le mie due compari.




E l'iPhone. Ovviamente.

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